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 2025  novembre 14 Venerdì calendario

Intervista a Giorgio Panariello

C’è chi alla vita ride in faccia: a volte per rabbia, altre per disperazione. E chi, come Giorgio Panariello, ha imparato a sorriderle: un talento figlio di «un’infanzia complicata» – ma che molti definirebbero difficile – costellata da una rosa di agnizioni che sembrano uscite da un film. Fino a 11 anni, Panariello era convinto di avere, come tutti, due genitori: un po’ attempati, certo, ma in fondo agli occhi di un bambino cosa cambia? Poi, la scoperta: le persone che lo hanno cresciuto sono i suoi nonni. Quelli che considerava fratelli, gli zii. «E la gentile signora che faceva capolino, ogni tanto, la domenica o a Natale portando qualche regalo era mamma». In realtà aveva anche un fratello, Franco, ma anche quello l’ha appreso dopo: lui aveva avuto un destino più sfortunato. Era cresciuto in collegio. Panariello gli ha subito voluto bene, standogli accanto anche quando la droga ha provato a portarglielo via. Alla fine, purtroppo, lo ha perso comunque: nel 2011 Franco esce con il giro sbagliato, si sente male ma viene abbandonato per strada, morendo assiderato. Ed è in queste verità tragiche che Panariello coltiva il suo talento più prezioso: cercare il sorriso, ripartendo da lì ogni volta che il suo mondo si disfaceva.
Forse proprio questo suo sguardo, se non pacificato sicuramente mai rabbioso, permette a Panariello di guardare con ottimismo al domani: un futuro che, per molti, è il grande sorvegliato speciale e che invece per lui è un rocambolesco viaggio, costellato di sorprese e ironia, da portare sul palco. L’attore è in tournée con E se domani...: una pièce che lo vede viaggiare nel tempo e, come un novello Marty McFly, tornare indietro per raccontarci cosa ha visto. Il 15 novembre sarà a Lugano, poi a Varese, Bassano del Grappa, Padova, Firenze.
Un ottimismo inguaribile.
«In realtà il mio è uno spettacolo di divulgazione comica. L’ho scritto partendo dalle risposte degli esperti e dei professionisti che avevo intervistato Nel garage per RaiPlay. Porto in scena un futuro plausibile dove mangeremo gli insetti – per la disperazione del buon Pio Bove, che ha nostalgia della mortadella e del rognone – viaggeremo su auto volanti, e saremo circondati di robot».
Non la inquieta?
«No, perché una cosa non muterà mai: l’umanità. È la risposta che tutti mi davano quando chiedevo agli intervistati cosa non cambierà. L’amore per noi stessi e per gli altri è la chiave per costruire un futuro migliore».
Com’è possibile che lei non covi rancore, né paura verso la vita, dopo tutto quello che le è successo?
«Ho avuto un’infanzia singolare ma non la definirei difficile perché fino a undici anni davvero pensavo che i nonni fossero i miei genitori. Ogni tanto qualche bambino mi faceva notare che erano vecchi, ma non ci davo peso: mi volevano bene, io ne volevo a loro. Poi ho scoperto la verità: una rivelazione così assurda che o ti arrabbi o la prendi a ridere. E io ho riso, perché il sorriso fa parte di me: non ho fatto questo mestiere per esorcizzare qualcosa. Sono nato comico. Tuttavia se hai sofferto, qualcosa ti rimane impigliato nello sguardo. Mara Venier me lo ripete sempre quando vado ospite da lei: “hai qualcosa negli occhi"».
Perché è cresciuto con i nonni?
«Mamma mi ha avuto a 17 anni e mi abbandonò all’ospedalino degli Innocenti di Firenze. Appena nonna l’ha saputo, si è precipitata lì e mi ha portato a casa con lei. Aveva già cinque figli, nonno non voleva saperne di tenermi ma alla fine si è imposta. L’anno seguente nacque mio fratello ma a lui non andò così bene: lo spedirono in collegio. Ci penso spesso: se fosse nato prima lui, quel destino nefasto sarebbe stato il mio».
Si sente in colpa?
«Per molto tempo sì. Mio fratello finì nella spirale della droga, viveva per strada e ogni tanto veniva ai miei spettacoli, in condizioni pietose. Io guardavo lui, e poi osservavo i miei vestiti eleganti di scena, le giacche stirate e mi sentivo in colpa. Così finivo per aiutarlo, dandogli i soldi che voleva, ben sapendo che fine avrebbero fatto... La verità è che lo facevo per sentirmi meglio io, non per aiutare lui. Poi ci siamo allontanati finché lui ha deciso di disintossicarsi e lì, sì, l’ho aiutato ad andare in comunità».
Com’era vivere con i nonni?
«Erano due persone semplici, entrambe analfabete ma con il cuore enorme. Ricordo che nonna teneva la lavastoviglie nel cellofan: la mostrava, orgogliosa, ai parenti ma non la usava mai. Mi hanno insegnato a stare con i piedi per terra: “Sei famoso, va bene, ma prima pensa sempre a pagare le bollette"».
Lo fa?
«Sono un po’spendaccione, ma ho una regola: se guadagno 5, tre li spendo e due li tengo. Solo all’inizio mi sono concesso un po’di spese pazze, soprattutto nell’abbigliamento: sono nato il 30 settembre, Bilancia ascendente Bilancia... Sono un esteta. Se non avessi sfondato come comico avrei aperto un negozio di abbigliamento».
Da ragazzo firmava quaderni per fare la prova autografi: ambizioso, oltre che spendaccione?
«Più che il successo, cercavo l’affetto. Ero un clown, una vera peste, ma a spingermi era il desiderio di essere visto non – come sostenevano le maestre – la poca voglia di studiare. Cercavo lo sguardo degli altri».
Ora che l’ha trovato, si sente amato?
«Molto. Per me il pubblico non è una platea pagante ma la mia famiglia. Anche quando sbaglio un programma, uno spettacolo – o un Sanremo… – esco di casa e la gente continua a volermi bene. Vedono oltre il personaggio».
Però quel Sanremo del 2006 non le è ancora andato giù…
«Ho sbagliato l’approccio: lo affrontai come se fosse uno dei miei tanti show, senza considerare tutto l’aspetto emotivo. L’embargo dei discografici ha poi fatto il resto: pur avendo dei cantanti bravi, non avevo la stessa possibilità di scelta di chi mi aveva preceduto».
Si rifarà l’anno prossimo?
«Carlo Conti, Leonardo Pieraccioni e io ci vedremo a pranzo a Firenze e se troviamo un’idea per Sanremo… perché no? La nostra amicizia si fonda sull’essere cresciuti artisticamente insieme, veniamo dalle radio e dalle piazze. Di Carlo vorrei la freddezza, di Leonardo lo spirito guascone. Se Carlo è l’uomo della tv e Leonardo la star del cinema, io sono fatto per il teatro e gli spettacoli dal vivo. Detto questo, forse ho pagato lo scotto di essere un comico: in Italia – e solo qui – chi fa cabaret è escluso da certi giri».