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 2025  novembre 14 Venerdì calendario

Troppi vestiti non riciclabili. Così la fast fashion mette in crisi la solidarietà

Tanti vestiti, poco aiuto. È la denuncia che arriva da chi si occupa di recupero e riciclo di indumenti usati. Il fast fashion, la continua produzione e l’eccessivo consumo di capi a poco prezzo, ha riempito i nostri armadi, ma anche i cassonetti per la raccolta di abiti usati. Un bel segnale di solidarietà e aiuto per chi ha bisogno? Purtroppo è spesso solo una pratica controproducente: gli abiti sono di scarsa qualità e difficilmente riciclabili. «Siamo in piena emergenza», racconta Ilaria Dorigo, responsabile dell’associazione la Porticina della Provvidenza, che a Bologna raccoglie abiti usati e beni di prima necessità per persone in difficoltà. «Noi doniamo soprattutto ai senza fissa dimora e abbiamo bisogno di felpe, maglioni, jeans. E invece ci ritroviamo con tantissimi indumenti da donna e bambino, molti comprati da grandi catene o piattaforme di shopping online», spiega Dorigo.
A settembre l’Osservatorio Ipsos ha rilevato che nei 12 mesi precedenti all’indagine, due persone su tre in Italia si sono disfatte di vestiti. In media, gli italiani si sono liberati di 7,6 capi a persona: il dato cresce al Nord (8,4) e scende nel Mezzogiorno (6,4). Ingrossando i magazzini di chi quegli indumenti li raccoglie per non sprecarli: «Di solito, come altre organizzazioni della zona, consegniamo ogni due settimane a una cooperativa gli abiti che non ci servono – prosegue Dorigo – ma da settembre a oggi siamo riusciti a farlo una sola volta: anche i loro magazzini sono pieni. Noi prendiamo solo quello che possiamo distribuire, il resto lo diamo a chi può smaltirlo o riutilizzarlo. Se si ferma un ingranaggio di questo ciclo siamo però in difficoltà: per un breve periodo eravamo così disperati che abbiamo accettato solo abiti maschili».
Il caso dell’associazione bolognese non è isolato: sono tanti gli stop temporanei alle raccolte. E in qualche comune arriva anche l’interruzione definitiva. La Caritas di Cremona ha bloccato il servizio dopo trent’anni di attività. A Sondrio i volontari hanno rimosso i cassonetti. Lo stesso a Forlì, dove sarà previsto solo il ritiro diretto dei tessuti. Anche Livorno ha optato per il ritiro a domicilio, rimuovendo i punti di raccolta. E così la Caritas locale è stata costretta a sospendere temporaneamente i ritiri perché sommersa dai vestiti, lasciati anche davanti all’ingresso della sede. Il Comune di Varese ha per ora solo pensato a una riorganizzazione, quasi dimezzando il numero di cassonetti in cui poter donare.
I motivi dei blocchi sono sempre gli stessi: oltre alla quantità sempre maggiori di vestiti, ci sono costi elevati di smaltimento. A spingere molti allo stop anche un nuovo regolamento europeo approvato a inizio anno. Il testo stabilisce che i tessuti danneggiati non possono più essere smaltiti nei rifiuti indifferenziati, ma riciclati da gestori pubblici. Ogni comune dovrà quindi raccogliere separatamente non solo carta e plastica, ma anche i tessuti. Questo comporta per le associazioni interessate il dover stipulare convenzioni con i singoli comuni e farsi carico di diverse spese. «Non siamo un’azienda che gestisce rifiuti», commenta Guido Osthoff, che coordina la raccolta di vestiti per la Caritas di Bolzano. Raccolta che, però, oggi non esiste più: «Abbiamo fermato il progetto e chiuso i cassonetti dopo più di cinquant’anni di attività», continua il responsabile, «e stimiamo che ogni anno abbiamo gestito tra le mille e le 2500 tonnellate di tessuti, tradotti in 100 mila euro di donazioni». Perché quei vestiti, sottolinea Osthoff, «rivenduti a organizzazioni specializzate nello smaltimento o nel mercato di seconda mano, servivano a finanziare i servizi offerti da Caritas ai bisognosi».
E la stessa emergenza vale anche altrove. Caritas ambrosiana e Consorzio Farsi Prossimo spiegano in una nota che i vestiti lasciati negli oltre 1800 cassonetti della diocesi «non vanno ai poveri, se non in piccolissima parte». «La stragrande maggioranza dei tessuti conferiti», prosegue il documento, «prende la via del riciclo o del riuso». Per questo gli indumenti, più che vestire le persone svantaggiate, permettono a chi ha bisogno di trovare un lavoro.

La Rete Riuse, che riunisce nove cooperative del settore in Lombardia, nel 2023 ha dato lavoro a «118 persone, di cui 33 svantaggiate, in base alle categorie di legge, e 44 fragili». Vesti Solidale, la cooperativa che da sola gestisce la metà dei cassonetti ambrosiani, nel 2024 ha dato occupazione a 63 persone. A Rho l’associazione gestisce il Textile Inclusive Hub, 12 mila metri quadrati per trattare i rifiuti tessili raccolti, fino a 20 mila tonnellate l’anno. Ma il fast fashion mette a dura prova la sostenibilità di un progetto retto dalla raccolta e dal recupero di tessuti: lo scorso anno, l’associazione ha registrato un aumento del 15% del materiale raccolto e una riduzione dei ricavi del 7% rispetto al 2023. «Stiamo attraversando un cambio di scenario importante e irreversibile» commenta Matteo Lovatti, presidente di Vesti Solidale. «Stiamo passando dalla raccolta dell’abbigliamento usato alla raccolta differenziata dei rifiuti tessili. Si spinge molto per il ritiro dei vestiti, ma spesso non si sa cosa farne: il fast fashion inonda il mercato di abiti di scarsa qualità che non possono essere riciclati», sostiene Lovatti. I mix di fibre che compongono la maggior parte dei vestiti in vendita a basso costo li rendono difficilmente smaltibili. In più, produrre una fibra sintetica nuova costa meno che usarne di riciclata. «Gli operatori oggi per riequilibrare domanda e offerta riducono la raccolta» conclude Lovatti: «Anche noi, a malincuore, abbiamo smesso di ritirare le eccedenze dalle parrocchie».