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 2025  novembre 14 Venerdì calendario

Il secolo di Bauman profeta laico dell’uomo liquido

Ormai stava seduto, accampato sull’ultima faglia del contemporaneo dove si infrange la modernità, si disperde la comunità, battono le onde del caos che, come una tentazione, minaccia di sormontare la razionalità: con i due ciuffi laterali di capelli come nell’icona di uno scienziato del Novecento, con tutte le rughe del secolo sulla fronte, e sotto le lunghe sopracciglia bianche quegli occhi scuri che non smettevano di indagare, perché c’era ancora e sempre qualcosa da capire. Non era inquieto, Zygmunt Bauman: era intellettualmente curioso, in continua attesa dell’ultima mutazione della realtà, di un fenomeno che ti sorprende manifestandosi, ma intanto spiega, rivela, allarga i confini della conoscenza, aiuta a comprendere. Ormai vecchio, non temeva il nuovo e non lo esorcizzava chiudendosi nelle sue certezze, ma anzi lo accoglieva come materia di studio, stimolo, spunto di contraddizione, cambio d’orizzonte. Pronto, domani, a dargli un nome e classificarlo con un giudizio nel suo catalogo senza fine di sociologo, filosofo, fenomenologo, e infine soprattutto testimone del tempo.
La sua scienza più che dal mondo nuovo, nasce dalla rottura del secolo in cui ha trascorso quasi tutta la sua vita e si è compiuta la sua esperienza. Guardando agli esiti del Novecento, ci accorgiamo oggi di quanto fossero rigidi, duri, addirittura meccanici i binari cui avevamo affidato i nostri percorsi, dalle ideologie agli atti di fede, alla divisione in classi, ai muri, agli istituti prodotti dall’incontro tra le coppie dominanti del secolo, la cultura e la politica, il lavoro e i diritti. Come se dovessimo proteggerci da noi stessi avevamo codificato il passaggio dalla misericordia alla solidarietà col welfare, e avevamo affidato il progresso all’alleanza tra capitale e lavoro, sotto la garanzia che immaginavamo perenne – dopo l’orrore della guerra – della democrazia, infine egemone sui due totalitarismi. Tutto aveva una sostanza quasi materiale, tutto era solido, o almeno era stato costruito per durare, resistere e dominare il futuro: che infatti si chiamava avvenire.
Bauman ha visto prima il disfarsi di questa utopia novecentesca, e la dispersione senza nome del suo lascito politico, sociale, culturale e morale. Conosceva di persona l’abisso del comunismo fatto Stato, sperimentato nella sua Polonia, e incancellabile nell’eredità di una coscienza tragica della storia. In più sapeva anche che l’esperienza del male non nasce dalla barbarie, ma dall’ordine senza pensiero, dall’obbedienza ottusa, dalla razionalità fine a se stessa, all’inseguimento di un sistema perfetto come una macchina, di un ordine senza anima. Il vero disordine, suggeriva, è la perdita di senso, la rinuncia al significato, quando una civiltà genera il suo contrario. Inevitabilmente ha spostato il suo punto di osservazione dalla certezza al dubbio, dalla meccanica alla flessibilità, introducendoci alla stagione nuova dell’instabilità, del precario, dove tutto è mobile e provvisorio, anche le identità.
Senza volerlo è diventato una star del pensiero in un’era immemore che si riconosceva però nella sua rabdomanzia definitoria, quando ha intuito e portato alla luce questa realtà secondaria poco seducente e spesso celata: perché fragile, intermittente, corta e breve, incapace di durare almeno il tempo di spiegarsi, e sempre comunque sfuggente. Concettualmente ha presidiato il punto di rottura, e come un moderno alchimista ha indagato sul momento esatto in cui l’acciaio lascia il posto al silicio, la fabbrica alla rete, quando la solidità si frantuma sbriciolandosi, il mondo intorno a noi diventa liquido, tutto scorre e noi passiamo dalla verticalità del costruire all’orizzontalità del galleggiare.
Nel suo paesaggio culturale e sociale tutte le certezze entrano in revoca, nessun meccanismo ci protegge dall’indeterminatezza, l’età della super-tecnica non ha inventato una meccanica in grado di mettere al sicuro la storia, la memoria e i sentimenti, mutevoli come le opinioni che diventano impressioni, e spesso si fermano addirittura prima, allo stadio di emozioni. Inevitabilmente, la celebrità sostituisce la fama, la notorietà spodesta la stima, l’apparenza scavalca la reputazione, la rappresentazione confisca la verità. Nell’era della velocità, della contemporaneità e dell’ubiquità, le cose di cui viviamo mutano prima ancora di prendere forma, nulla dura così a lungo da diventare un punto di riferimento sicuro.
Il riflesso è politico, e addirittura morale. Nel mondo compatto si stava insieme, nell’universo liquido si naviga da soli, dove porta la corrente. Anche la morale comune si spezza negli usi privati e negli abusi individuali, manca una Causa collettiva in cui riconoscersi e per cui lottare insieme, retrocediamo alla dimensione della folla, a cui basta sentire, mentre il pubblico ha necessità di capire. Nell’esplosione delle opinioni private, attraverso i social network, si smarrisce quel soggetto delicato e decisivo delle democrazie che è l’opinione pubblica, ed entriamo nuovamente in quella che Walter Lippmann chiamava la fase dell’anemia, quando manca ogni appetito di futuro e viene meno qualsiasi curiosità per la scena umana.
L’uomo di Bauman è più solo, disilluso e smarrito tra forme sociali transitorie, incapaci di generare una vera responsabilità politica, in quella società che dopo essere stata primo attore torna ad essere semplicemente scena, spesso spoglia. Anche i dilemmi si semplificano nella loro radicalità, e il pendolo della nostra vita si muove ormai tra l’esercizio della libertà e il bisogno della sicurezza, negoziando uno scambio quotidiano di quote con uno Stato nazionale che non è più in grado di garantire quel che promette, per la dimensione universale dei problemi che lo sovrastano. E tuttavia, dice Bauman, sopravvive una certezza, che custodisce ciò che resta della speranza: non siamo determinati, siamo autonomi, armati di quella parola di due lettere che presidia la nostra libertà: no. Ancora una volta e per fortuna, concluderebbe, dipende da noi.