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 2025  novembre 14 Venerdì calendario

Un anno senza Alberto

E la cosa ancora più angosciante è che questa detenzione lunghissima e assurda sembra non smuovere coscienze, proteste, indignazioni istituzionali o popolari. Anche l’informazione latita, salvo rare eccezioni e come tali poco influenti. Eppure il nostro connazionale Alberto Trentini da Venezia, 46 anni, cooperante di professione, è scomparso in un buco nero del Venezuela, prelevato a un posto di blocco esattamente il 15 novembre 2024, trasferito nella prigione infernale di El Rodeo, e lì resta, circondato da guardie brutali e da una indifferenza nazionale che nessun altro italiano finito in mani straniere ha come lui patito. Nessuno, nessuna. Perché? Che cosa impedisce una collettiva presa di coscienza che spinga il governo a fare il possibile e l’impossibile per mettere fine a questo sfregio alla sopravvivenza di una persona perbene e all’onorabilità di una nazione chiamata per dovere a tutelare i propri cittadini?
Il dottor Trentini, laureato in Storia a Ca’ Foscari, master in assistenza a Liverpool e in sanificazione dell’acqua a Leeds, decine di esperienze sul campo (tra cui Ecuador, Etiopia, Paraguay, Nepal, Perù), era in Venezuela da ottobre, coordinatore di una ong francese, «Humanity and Inclusion», dedicata agli aiuti alle persone con disabilità. Motivi del suo arresto, 365 giorni fa? Ufficialmente zero. Tranne uno, indicibile: Alberto è l’unico italiano, tra i sessanta «prelevati» in una terra oltre l’orlo dell’abisso, che abbia soltanto la nostra cittadinanza. Questo fa di lui una merce di scambio preziosa nei confronti di un Paese, il nostro, «colpevole» di non aver riconosciuto come legittime le contestatissime elezioni che nel 2024 hanno confermato al comando del Venezuela Nicolás Maduro Moros, ex autista di bus passato a dirigere un sindacato e poi assurto alla presidenza per la prima volta nel 2013. Inseguito da un’accusa Onu di crimini contro l’umanità, persecutore di ogni opposizione, Maduro è anche il protagonista del tracollo economico e sociale (5 milioni di migranti per disperazione su 28 milioni di abitanti) di quella che lui stesso ha ribattezzato Repubblica Bolivariana. E il povero Simón Bolivar, liberatore del Venezuela dall’occupazione spagnola, forse non gradirebbe.
Un interlocutore, dunque, non facile con cui trattare. A fine agosto, però, alcuni italo-venezuelani sono stati rilasciati, e anche qualche detenuto americano e svizzero. La pressione internazionale qualche effetto lo produce. Tranne che per Alberto Trentini. E allora diventa indispensabile chiedersi dove stiamo sbagliando, se ci stiamo impegnando abbastanza per lui, qual è la cosa che si deve assolutamente fare prima che diventi troppo tardi, specie adesso che Trump ha messo Maduro nel mirino, muovendo in direzione Caraibi nientemeno che la Uss Gerald Ford, la più grande portaerei degli Stati Uniti. Se davvero si passerà allo sbarco, che ne sarà del destino di un cooperante dimenticato dal suo stesso Paese?
C’è sempre stato un buon motivo per accantonare il caso Trentini. All’inizio, la richiesta del silenzio da parte del ministro degli Esteri Tajani «per non pregiudicare le trattative». Quali non è dato sapere, visto che soltanto a fine luglio, nove mesi dopo la cattura, è stato nominato un inviato speciale per i detenuti politici in Venezuela, Luigi Maria Vignali. Vero, ci sono state le telefonate private tra Giorgia Meloni e la signora Armanda, madre di Alberto. Ma fino a settembre la nostra presidente del Consiglio ha ritenuto di non dover pronunciare il suo nome: Trentini, Alberto Trentini. E questo nonostante le ripetute richieste di attenzione dei suoi genitori, Armanda e Ezio, degli amici veneziani che da mesi digiunano a staffetta, delle decine di migliaia di firme per il suo rilascio raccolte da Change.org, dell’avvocato Alessandra Ballerini, la stessa che da nove anni segue la strenua battaglia di Paola e Claudio Regeni per avere giustizia sull’atroce fine del loro Giulio. Proprio i Regeni sono andati, primi a farlo, da Fabio Fazio a Che tempo che fa per lanciare, dall’alto del loro magistero di dolore, un appello: «Chiediamo che il governo si dia una mossa. Vogliamo che questo giovane italiano torni a casa. E venga rispettato come portatore di pace». Era febbraio, appello non raccolto.
Chi è il portatore di pace dimenticato a Caracas, descritto da chi l’ha conosciuto come accogliente, preparato, spiritoso, l’ha raccontato a più riprese mamma Armanda, sempre da Fazio e a Il cavallo e la torre di Marco Damilano: «Un bravo ragazzo, che ha scelto di girare dappertutto per aiutare gli altri. L’estate del 2024 però non si è mosso, papà Ezio si era ammalato e lui voleva che la situazione fosse più tranquilla prima di ripartire... Quando me l’hanno fatto sparire, ho scritto al Presidente Mattarella: si è fatto vivo e io mi sono scusata di averlo disturbato. Mi ha detto di avere fiducia». Ma anche la fiducia ha un tempo di scadenza. Però lei, almeno lei, tiene viva la fiammella della speranza. Una volta alla settimana va a controllare la casa veneziana del figlio, perché sia tutto in ordine quando tornerà. La consolazione sono le tre telefonate che Alberto è riuscito a farle in questo anno disperante: si è preoccupato di rassicurarla sulla sua salute, dicendole che ha anche smesso di fumare, ha chiesto notizie del padre, si è premurato di ricordare di non toccare la macchina perché è scaduta la data del tagliando per la revisione. Poi c’è stata la prima visita in carcere del nostro ambasciatore, Giovanni Umberto De Vito, e la fiammella si è di colpo riattizzata. Poi più niente fino a oggi.
Non è vero che chi salva una vita salva il mondo. Ma è vero che non salvare una vita salvabile è una macchia che non va più via. Vale per uno Stato, e forse in questo caso vale anche per ciascuno di noi, che abbiamo «nazionalità italiana» sul passaporto. Alberto Trentini rappresenta l’Italia solidale, quella che non si tira indietro davanti a chi ha bisogno. Per non fare passare invano questi 365 giorni di male, forse avrebbe senso che i nostri Comuni, vicino a «Giustizia per Giulio Regeni», esponessero lo striscione «Libertà per Alberto Trentini». Storie diverse, stessa passione di andare di persona incontro al mondo per raccontarlo, per aiutarlo, perché non l’abbiano vinta i distruttori di umanità e di pace.