Robinson, 9 novembre 2025
Timori e tremori del traduttore innamorato
È stato di volta in volta il “Dottor Divago” e il “Professor Prezzemolo”, sia per la sfuggente capacità di non stringere mai i discorsi, sia nel condire con versatile sapienza le esigenze più diverse che l’università richiedeva: «Ero un caso unico di disponibilità reticente, con gli studenti e con i professori. Ma la verità è che non c’è mai stato vero feeling tra me e il mondo accademico. E ho anche l’impressione che questo amore mancato sia stato la mia salvezza».
Dario Borso è una specie interessante di intellettuale confinata nella sua costellazione di stelle rare e remote che ripropone con le sue traduzioni impeccabili: da Jean Paul ad Arno Schmidt, da Sestov a Kierkegaard. È come una bag lady che spinge il suo carretto di buste straripanti di parole e di concetti. Come una bag lady che non ha casa e porta tutto con sé anche lui sa essere scontroso e tenero, ossessivo e svagato.
Si è occupato di Artaud (sua una traduzione recente di L’oggetto amato); di Elvio Fachinelli di cui è stato amico e paziente (curando Dieci storie qualsiasi), di Georg Trakl. Un posto a parte meritano i suoi lavori su Paul Celan e Soren Kierkegaard.
La tua ultima fatica è la cura di “Timore e tremore” per le edizioni Morcelliana. Avevi già tradotto altre opere di Kierkegaard?
«Lo avevo leggiucchiato al liceo; poi, negli anni Ottanta, mi imbattei nell’edizione francese di Sul concetto di ironia e giurai a me stesso che lo avrei tradotto. Cominciai prima a studiare il danese a Milano e poi a fare regolarmente dei soggiorni estivi a Copenaghen. Collaboravo all’archivio Kierkegaard, sotto la guida di Julia Watkins. Una donna molto particolare».
Cosa ti colpiva di lei?
«Era una specie di suora laica, girava estate e inverno con i sandali e senza calze. Fu importante per me la sua competenza sul filosofo danese. Peccato che a un certo punto della sua vita emigrò in Tasmania per insegnare all’università. E ne persi le tracce. Ma ancora oggi mi piace ripensare ai nostri dialoghi mentre continuo a curare e a tradurre Kierkegaard».
“Timore e Tremore” è un libro strano, come la tua “suora laica”.
«Strano come poteva essere il libro di uno che scriveva contemporaneamente su tre tavoli. A Kierkegaard non ha mai fatto difetto l’originalità e nell’ambiente luterano in cui viveva era merce rara. Quella capacità di sorprendere si ricava anche dalla lettura di Timore e Tremore : è un testo vertiginoso, pubblicato nel 1843».
Al centro vi è il sacrificio di Isacco. L’aspetto vertiginoso sono le quattro versioni che Kierkegaard immagina della reazione di Abramo.
«La storia biblica è nota: Dio ordina ad Abramo di condurre Isacco sul monte Moriah per sacrificarlo. Kierkegaard effettivamente propone quattro versioni della storia a dimostrazione che se la fede è una, diverse possono essere le reazioni dell’essere umano. Sembra di stare nel film Rashomon: c’è una sola verità? E se c’è, in cosa consisterebbe?».
È come una discesa nella psiche di Abramo.
«Ma è altresì una discesa nell’anima di Kierkegaard. Due anni prima di Timore e Tremore si lascia con Regine Olsen. La rottura con la fidanzata, che continua ad amare, ha tutta l’aria di essere il sacrificio che una voce interiore gli chiede perché possa adempiere alla sua “missione” di filosofo. Per poter accettare la decisione del distacco, si immagina come un impostore agli occhi di Regine. Prova a degradarsi. Una situazione analoga a quella che attribuisce ad Abramo, il quale fa di tutto per apparire come un mostro agli occhi di Isacco».
Perché?
«Abramo non vuole che Isacco pensi che l’ordine di ucciderlo parta direttamente da Dio. Preferisce che il figlio maledica il padre ma continui ad avere fede in Dio piuttosto che maledire il Signore e dunque perdersi».
È un groviglio mentale terribile quello in cui versa Abramo.
«Come finire in un inferno cercando però disperatamente di uscirne. Perché Abramo deve sottoporsi a una prova così estrema? Ecco la forza del mistero che abita nell’essere umano davanti a una scelta radicalmente folle. È interessante cosa scrive Kierkegaard: “Chi avrà spiegato questo enigma, avrà spiegato anche la mia vita”».
Si sente coinvolto in prima persona.
«È come se Abramo lo interpellasse personalmente. La rottura con Regine è dolorosissima. Scrive: “Avessi avuto la fede, sarei rimasto con Regine”. Ma è chiamato ad altri compiti».
In fondo quello che ci dice Kierkegaard è che non si può fare filosofia senza mettersi radicalmente in gioco.
«In questa consapevolezza estrema si comprende l’ostilità nei riguardi di Hegel. Per Kierkegaard è incredibile quanto fumo e quante stupidaggini abbia prodotto la filosofia hegeliana!».
A proposito di Hegel, il tuo primo libro è su di lui.
«Mi laureai su Hegel con Mario Dal Pra. Da grande filologo della filosofia Dal Pra mi insegnò a leggere soprattutto gli autori e meno i libri sugli autori».
Quindi era preferibile leggere direttamente Hegel che non il tuo libro?
«Su questo non avrei dubbi. Oltretutto, Hegel politico dell’esperienza era una sintesi mal riuscita tra il pensiero sistematico di Dal Pra e il pensiero negativo di Cacciari».
Che ricordo hai dei tuoi anni universitari?
«L’impatto con Milano e poi con l’università non fu dei migliori. Venivo da un paesetto del vicentino, e vissi tutto lo smarrimento di un diciassettenne. Vergognandomi del mio accento vicentino trascorsi tutto il primo anno di filosofia senza quasi mai parlare. A un certo punto chiesi aiuto a Elvio Fachinelli che mi prese in analisi. Sono stato prima paziente e poi amico di questo personaggio totalmente allergico alle etichette e alle scuole psicoanalitiche».
Hai preso molto di quella allergia.
«Mi considero un irregolare, del resto a giudicare dagli autori di cui mi occupo è evidente che hanno poco o nulla di normativo. In fondo, ciascuno cerca quasi sempre conferme su ciò che è o è stato. Io le poche certezze le ho trovate nei libri e in coloro che li scrivono. Viverci accanto, tradurli e curarli, ritengo sia tra le manifestazioni più intense d’amore».
Mi ha colpito il tuo interesse per Jean Paul e la tua traduzione di “Viaggio a Flätz”, un piccolo capolavoro dell’umorismo.
«Jean Paul aveva sotto gli occhi la sua Prussia smembrata e messa in ginocchio da Napoleone che nel 1806 a Jena aveva travolto l’esercito prussiano. Lo scrittore era immune al fascino che Hegel provò davanti all’imperatore a cavallo, a quella vanità filosofica di scorgere lo “spirito del tempo” nei presunti eroi della Storia. Viaggio a Flätz è un’opera irriverente dove “lo scherzo”, scrisse Jean Paul, “non conosce altro scopo che il suo proprio esistere”».
Carlo Dossi lo inserì tra i grandissimi della letteratura.
«Lo mise accanto a Shakespeare e subito dopo Omero. Lo stesso Kierkegaard amò tantissimo Jean Paul e in particolare Viaggio a Flätz. Gadda provò a tradurlo ma poi desistette. Italo Svevo nella Coscienza di Zeno replicò ai limiti del plagio il finale di Viaggio a Flätz. Lo stesso Bobi Bazlen ne fu influenzato».
La storia di “Viaggio a Flätz” qual è?
«Il cappellano militare Attila Schmelzle se la squaglia prima di una battaglia. Per un tale atto disonorevole viene cacciato. Il racconto è il viaggio che Schmelzle compie verso la capitale con lo scopo di incontrare il suo comandante per dimostragli il suo coraggio. Una satira sulla guerra e i suoi valori».
Accennavi al tema del plagio, un argomento che per ogni scrittore può diventare un incubo. Lo fu certamente per Paul Celan.
«La storia per cui, secondo le accuse di Claire Goll, Celan avrebbe copiato alcune poesie del marito Yvan è stata definitivamente smontata da Barbara Wiedemann. La vicenda, oltretutto, è talmente nota che non vale la pena riprenderla. C’è invece un aspetto che la Goll affronta in Cercando di afferrare il vento, che merita qualche supplemento di indagine. Si tratta dell’accusa di molestie sessuali che lei avrebbe subito da Celan».
È un’accusa fondata?
«Direi di no. La Goll rivelò questa presunta violenza sessuale in tarda età. Aveva già superato gli 80 anni e si giustificò dicendo di non averlo denunciato prima a causa di un giuramento sulla memoria sacra del marito. Giuramento tra lei e lo stesso Celan».
Mi pare improbabile.
«Francamente non li vedo farsi una promessa del genere. Ma è quello che sostenne e scrisse la Goll. Aggiunse che voleva “smascherare pubblicamente Celan”. E lo trattò alla stregua di un Giuda che aveva tradito il suo maestro, cioè Yvan Goll. Si spinse fino a dire che entrambi si suicidarono – uno impiccandosi, l’altro gettandosi nella Senna – per uno spaventoso senso di colpa».
In “Cercando di afferrare il vento”, che tu hai curato, il ritratto di Claire Goll è quello di una donna terribile.
«Anche terribilmente bella e terribilmente intelligente. Era ebrea come Celan. La schiera dei suoi amanti è una lista impressionante di nomi prestigiosi. Compagni di strada furono Joyce, Rilke, Malraux, Picasso, Chagall, Dalì, Einstein, Jung, Henri Miller. Non con tutti andò a letto. Credo che dei suoi “trofei erotici” le importasse fino a un certo punto. Nelle sue memorie confessò che il primo orgasmo lo aveva provato a 76 anni!».
Più che una musa, una erinni.
«In un’intervista rilasciata poco prima di morire dichiarò che tutte le persone che le avevano fatto del male erano crepate. In particolare ne citò tre: sua madre, l’editore Kurt Wolff e Paul Celan. Claire crebbe con la zia, una donna che adorava e che lavorava ai bagni pubblici. Da lei, Claire imparò il suono delle fiabe dei Grimm. E ogni volta che veniva tirata la catena del water la zia diceva: “ascolta bene Claire, sono i corvi di Grimm”. Ecco, temo che i corvi abbiano svolazzato troppe volte nella sua testa».
A parte l’insinuazione della Goll, cosa spinse Celan al suicidio?
«Le ipotesi sul suo gesto sono tante. Bisogna tenere conto di un quadro mentale fragilissimo. Celan passò un periodo in una clinica psichiatrica. Aveva tentato di accoltellare la moglie. Chi, negli ultimi mesi, lo frequentò vide un uomo allo sbando: pallido, insicuro, balbettante».
Perché è così importante la sua poesia?
«Una fonte è certamente la sua origine ebraica e l’annesso tema dello sterminio. Ma oltre a questo sfondo c’è lo scavo della lingua. Ho appena finito di curare Celan traduttore di Ungaretti e lì si capisce non solo cosa voglia dire tradurre ma anche cosa implichi portare la lingua al massimo della tensione possibile. Di solito davanti al testo di Celan si resta attoniti e smarriti. Come fossimo davanti a un enigma. Ma la sua poesia richiede un processo di conoscenza. Da questa nasce in seconda battuta il piacere estetico».
Un altro scrittore, quasi impossibile da tradurre, di cui ti sei occupato è Arno Schmidt. Hai curato, tra gli altri, il suo romanzo-diario più potente, “Leviatano”. Anche qui una fuga dalla guerra, come in “Viaggio a Flätz”.
«Herman Hesse disse che quel libro era la dimostrazione non solo del tramonto dell’Occidente, ma di tutta l’umanità. La guerra, con i suoi orrori, ne era la principale responsabile. Schmidt vi si oppose con l’arma della derisione. Nella convinzione che occorresse pensare e non contentarsi di credere come dice in Paesaggio lacustre con Pocahontas. Nel romanzo, sotto un frivolo pretesto per una storia d’amore, si nascondono gli orribili ricordi della guerra, avvolti da una sorta di follia ormonale. La grandezza di Arno Schmidt è che seppe fare non solo i conti con il passato ma anche con il futuro