Robinson, 9 novembre 2025
Black Lives Matter agli Uffizi, arriva il Mendicante moro
A guardarlo negli occhi, il Mendicante moro di Giacomo Ceruti non sembra appartenere al Settecento. Di sicuro non quello fatto di ciprie e velluti delle corti, e nemmeno quello dei ritrattisti che lavoravano per i ricchi turisti del Grand Tour. Ma il suo sguardo, scurissimo e fiero, non chiede l’elemosina, chiede attenzione. Quegli occhi neri, dipinti quasi trecento anni fa, oggi entrano a far parte della collezione delle Gallerie degli Uffizi che, sotto la direzione di Simone Verde, continuano a spostare il focus dal Rinascimento al secolo dei lumi.
A quest’epoca appartiene anche la precedente acquisizione (il Matrimonio mistico di Santa Caterina de’ Ricci di Pierre Subleyras, 1746), e a questo secolo è dedicata la mostra in corso fino all’11 gennaio Firenze e l’Europa. Arti del Settecento agli Uffizi, all’interno della quale sarà esposto il nuovo arrivato. «Un unicum assoluto», lo definisce Verde, perché si colma così una lacuna delle collezioni fiorentine, dove fa il suo ingresso un pezzo di mondo che la pittura del tempo aveva lasciato ai margini.
Milanese di nascita e bresciano d’adozione, Giacomo Ceruti fu il pittore degli ultimi. Non dei poveri come stereotipo o protagonisti di scene di genere, piuttosto intesi come individui. Il Mendicante moro, un olio su tela di un metro e venti realizzato tra il 1725 e il 1730, è una rarità nel panorama della pittura settecentesca italiana ed europea; non tanto perché ritragga un uomo di origini africane – un soggetto diffuso già dal Rinascimento, spesso nel ruolo di paggio, valletto o servo, esotico dettaglio domestico al servizio della celebrazione dell’opulenza del committente – ma perché il quadro ritrae un uomo che nel gesto di mendicare, in piedi e avvolto di stracci, afferma la sua esistenza. Il ritratto ha, nella miseria, una sua austerità. Nel Mendicante moro c’è la stessa dignità, perfino la monumentalità dei nobili nelle sale dei palazzi, e i suoi occhi, dolenti ma lucidi, esprimono lo spessore psicologico di una persona reale.
Presentato già nel 1953 alla celebre mostra milanese di Roberto Longhi sui Pittori della realtà, il Mendicante moro è stato una presenza costante nelle pagine della storiografia artistica degli ultimi sessant’anni. Recentemente è tornato alla ribalta grazie alla grande esposizione del 2023 a Brescia Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento, che arrivava a trentacinque anni dalla precedente retrospettiva sull’autore lombardo. Messo in vendita sul mercato dai precedenti proprietari, due collezionisti italiani, il quadro è stato subito acquistato dal museo fiorentino.
Di Ceruti, gli Uffizi possedevano solo un altro dipinto, Il ragazzo con cesta di pesci e granseole, di circa dieci anni più tardo, ma di minor valore artistico. Con il Mendicante moro il museo accoglie un’opera che stravolge le convenzioni iconografiche del suo tempo e allarga i confini culturali di un secolo in cui si fa strada la modernità e cominciano ad affermarsi i valori dell’uguaglianza. «Ceruti è un grande interprete dell’idea di individuo, un concetto che nasce nel Settecento – spiega il direttore Verde – I suoi soggetti, pur umili, sono i protagonisti di una nuova storia e la loro forza non è pauperistica, ma borghese. Sono le radici della modernità che avanza».
In questa assenza di retorica o pietismo, in una sensibilità che si potrebbe definire protoilluminista, si annida la rivoluzione di Ceruti. A lungo soprannominato “il Pitocchetto”, la sua pittura fu un grande esperimento morale e visivo in un momento storico, il primo Settecento in Lombardia, nel quale emergevano nuovi soggetti sociali, una nuova realtà che un secolo dopo porterà alla grandezza della borghesia europea. Ancora Verde: «Ceruti dà visibilità a una nuova concezione della persona, ritraendo soggetti fino ad allora rimasti esclusi dall’iconografia tradizionale, ma che progressivamente sarebbero arrivati a diventare protagonisti». Nei suoi mendicanti, nei portaroli, nei contadini, egli non lasciava emergere la miseria, bensì l’essere umano, la vita quotidiana. Analogamente a Caravaggio un secolo prima, Ceruti ribalta le gerarchie del visibile, facendo diventare centrale ciò che prima era marginale. E lo fa con linguaggio sobrio, privo di drammi teatrali.
Non si sa chi fosse davvero il mendicante dipinto da Ceruti. Forse un uomo incontrato per strada, forse uno dei tanti che popolavano Milano o Brescia nel diciottesimo secolo. Il valore più grande dell’opera risiede proprio nel fatto che sia anonimo, un volto senza nome che assume il ruolo di un simbolo, in mezzo a Madonne, principi e santi. Dopo la mostra, quando saranno completati i lavori alla sezione degli Uffizi dedicata al Settecento (circa tra due anni), il Mendicante moro troverà posto tra i grandi del passato.