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 2025  novembre 11 Martedì calendario

Cent’anni di bivacchi, architetture essenziali per la montagna lenta

Nel 1925, a dorso di mulo, salivano in quota i pezzi del primo bivacco alpino moderno: l’Adolfo Hess all’Estellette in Val Veny. Oggi quel piccolo rifugio, simbolo della tradizione alpina italiana, compie cent’anni. Ed è anche l’anno in cui la montagna sarà al centro del dibattito nazionale, grazie alle Olimpiadi di Milano-Cortina. Mi permetto quindi di avanzare una riflessione e di lanciare una sfida. La prima: come costruire in montagna oggi? La seconda: potrebbe il nostro Paese diventare un modello globale per l’architettura alpina?
Ci stavo riflettendo in questi giorni, dopo che, insieme al Salone del Mobile di Milano, abbiamo presentato un progetto di bivacco: un piccolo spazio di emergenza che si incastona nella montagna come una roccia. L’idea: presentarlo in anteprima durante le Olimpiadi, aprirlo al pubblico durante la Settimana del Design e infine trasportarlo sulle Alpi, per farlo vivere nel lungo periodo. Un modello di circolarità, basato sul riuso: molte strutture temporanee delle Olimpiadi potrebbero avere una seconda vita in quota. L’idea, inoltre, ha un precedente di successo in Casa Canada di Torino 2006, poi diventata Rifugio Melano a Frossasco.
I riscontri di critica e pubblico sono stati molto positivi. Però, un amico – uno di quei montanari un po’ mugugnoni – ha buttato lì: «L’è trop bell». E poi: «Vedrai che attirerà influencer sui sentieri alpini e si faranno male». Lì per lì il commento mi ha fatto sorridere. Poi, però, ho pensato che andasse preso sul serio. Con una riflessione che parta proprio dai primi bivacchi di cento anni fa.
Questi ultimi dovevano essere leggeri, modulari e facilmente trasportabili, in un’epoca in cui non c’erano ancora gli elicotteri. Gusci d’acciaio standardizzati e capaci di resistere alle intemperie, con all’interno letti a castello e pochi arredi essenziali. Un’architettura spartana: punto d’appoggio per vie troppo lunghe e rifugio in caso di maltempo o incidenti.
Era il simbolo di un modo antico di andare in montagna, come i pantaloni alla zuava e gli scarponi con le Vibram avvitate sulla tomaia. Quel modo che racconta Paolo Cognetti – mio compagno di salite sul Monte Rosa da ragazzini – nelle Otto Montagne, attraverso la figura burbera del padre (che non ha nulla a che vedere con il padre di Paolo, per niente burbero!). Una montagna severa, caratterizzata dalla lentezza dell’approccio e dall’appartenenza a un club d’elezione – e d’élite.
Ma lentezza ed elezione non sono la cifra del viaggiare contemporaneo. Le montagne soffrono di una sindrome simile all’overtourism delle nostre città. Se tutti gli appassionati di scalate in Europa volessero conquistare la vetta del Bianco almeno una volta nella vita, servirebbero non un rifugio Gonella, ma diverse decine. Questo non vale solo per le Alpi: ho vissuto in prima persona i campi base sovraffollati dell’Himalaya, le chiassose carovane che assediano Mount Cook in Nuova Zelanda, o il pellegrinaggio infinito intorno al Fitz Roy in Cile.
Poi c’è la questione velocità. L’acclimatamento artificiale con il gas xenon consente ormai di conquistare un Ottomila in una settimana, mentre un’attrezzatura tecnica sempre più performante, domani magari aumentata da esoscheletri, aumenta le performance. Quando da adolescente salii per la prima volta alla Capanna Margherita in giornata mi sembrava di aver violato un codice non scritto – come un saluto troppo frettoloso a una cara e vecchia zia. Che dire allora di chi oggi emula la Monte Rosa Skymarathon, sgambettando da Alagna alla vetta e tornando indietro per il tè di metà pomeriggio? Magari al solo fine di pubblicare un selfie sui social media, e rischiando di mettere a repentaglio la propria vita e quella di eventuali soccorritori del Cai?
Quali potrebbero essere allora le soluzioni? Non credo che la risposta del mio amico – costruire brutte strutture alpine e rendere le nostre montagne meno attraenti – sia quella giusta. Sarebbe come contrastare l’overtourism a Venezia piazzando un ecomostro in piazza San Marco. Senza contare che molti architetti poco attenti hanno già sfregiato molte aree alpine negli ultimi decenni. Credo invece che la bellezza possa essere la migliore difesa della montagna.
La montagna ci insegna a vivere con poco e a gestire al meglio le risorse naturali. Nuove architetture leggere, certificate dal punto di vista dell’impatto, sono il modello di quello che dovremo costruire domani in tutto il mondo per adattarci a un clima e a un pianeta che cambiano, come facciamo vedere quest’anno alla Biennale di Architettura di Venezia (“Intelligens. Naturale. Artificiale. Collettivo”, fino al 23 novembre).
La personalizzazione digitale, poi, può aiutarci a costruire meglio in quota. Non “astronavi” atterrate da chissà dove, con fondazioni in acciaio o calcestruzzo che feriscono la montagna, ma architetture che si integrano con discrezione. Grazie ai rilievi tridimensionali e alla fabbricazione computerizzata possiamo adattare ogni struttura alle condizioni specifiche del sito, riducendo sprechi, semplificando il montaggio e rendendo più facile lo smontaggio a fine vita.
Insomma, potremmo usare il 2026 per discutere di questi temi e sperimentare nuovi modi di progettare in montagna, dalle Alpi agli Appennini. Le Olimpiadi possono diventare il laboratorio in cui l’Italia diventa modello di come costruire in montagna tra bellezza e sostenibilità. Parafrasando Dostoevskij, forse non solo la bellezza, ma anche le montagne salveranno il mondo. Se saremo in grado di ascoltarle.