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 2025  novembre 11 Martedì calendario

Nato, metamorfosi di un’alleanza

Nel decennio successivo alla caduta del muro di Berlino (1989) la Nato si è trasformata da istituzione percepita come moribonda ad «asso piglia tutto». Stefano Marcuzzi in uno straordinario e documentatissimo libro, L’Europa e la Nato alla fine della Guerra fredda, in uscita venerdì 14 novembre per i tipi de il Mulino, tenta una prima spiegazione di come sia stato possibile. Facendo i conti con testimonianze clamorosamente contraddittorie (spesso da parte di una stessa persona) e lacune ad ogni evidenza non involontarie. Non involontarie sia nelle ricostruzioni di un campo, da sempre ostile all’Alleanza atlantica, che in quelle del campo opposto. Quei dieci anni, gli ultimi del passato millennio, sembravano avviare la Nato – non più contrapposta al Patto di Varsavia, strumento peraltro mai messo alla prova per fronteggiare sul campo un’offensiva comunista – ad un inesorabile declino. Invece furono gli anni in cui si è costruita «l’architettura di sicurezza europea a trazione transatlantica in cui viviamo». Anche se «quello stesso processo lasciò zone d’ombra non immediatamente evidenti, come dei fori in una diga che lascino filtrare delle perdite d’acqua». Perdite d’acqua «ritenute inizialmente trascurabili» ma, secondo Marcuzzi, destinate nel tempo a «fendere e far vacillare l’intera struttura».
Contrariamente a quel che si potrebbe pensare (e che molti pensano), nota Marcuzzi, la premura degli alleati Nato («alcuni più di altri», precisa l’autore) fu solo in parte «dettata da considerazioni strategico militari». La principale ragione per tenere in vita l’Alleanza atlantica era quella di preservare il legame tra Stati Uniti ed Europa. Per molti europei, questo era «anche» un modo per garantirsi il ricorso all’aiuto militare americano in caso di necessità. Ma questo era un «fattore secondario» rispetto all’esigenza di «bilanciare l’influenza continentale che altri alleati europei avrebbero altrimenti potuto acquisire». In altre parole, la scelta di mantenere in vita la Nato derivò anzitutto dal fatto che i Paesi europei preferirono la leadership di un «primus inter pares d’oltreoceano» piuttosto che quella di uno di loro. Vale a dire di qualsiasi altro Stato del continente.
Per gli Stati Uniti, la Nato del dopo Guerra fredda non era vista come uno strumento per ampliare il proprio peso militare. Semmai il contrario. Era «il viatico per ridurre le spese militari puntando sul fatto che gli europei potessero difendersi da soli». Tant’è che gli Usa riuscirono a risparmiare 1,3 trilioni di dollari grazie alla riduzione delle sovvenzioni destinate all’Organizzazione che era stata creata per la difesa dal comunismo.
In ogni caso, la verità è che al momento della dissoluzione dell’Urss (1991) in molti ritennero che la North Atlantic Treaty Organization avesse i giorni contati. Politologi e teorici della «scuola realista» sostenevano (rifacendosi a Thomas Hobbes) che questo genere di trattati, per vivere, avessero bisogno di nemici, senza i quali «un’alleanza non risponde più alle esigenze dei suoi membri». E perde perciò di senso. Sulla base di questo principio molti studiosi – come Alessandro Colombo in Solitudine dell’Occidente (Il Saggiatore) – predissero che la Nato si sarebbe sciolta in tempi brevi. Ciò che non accadde. E le avvisaglie di una nuova rivalità tra Nato e Russia furono già evidenti dieci anni dopo la caduta del muro. Tanto più che, nel corso di quel decennio, i due «attori» si erano già confrontati più di una volta «sul destino dello spazio post sovietico e sulla gestione dei conflitti balcanici».
Quel decennio, 1989-1999, meriterebbe di esser messo – come fa adesso Marcuzzi – sotto una lente d’ingrandimento. In quegli anni, scrive lo studioso, la Nato combatté due guerre e fu impegnata in altrettante missioni «fuori area», ovvero «in territori non coperti dall’articolo 5» di difesa collettiva tra gli Stati membri dell’organizzazione. Guerre «giustificate con motivazioni umanitarie nel contesto di un nuovo compito che l’Alleanza si era auto attribuito»: la «gestione delle crisi». L’ultima di queste guerre, quella del Kosovo, combattuta contro la Serbia, storico alleato di Mosca, era stata scatenata, sottolinea lo storico, senza l’esplicita autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. E aveva così messo a fuoco un «autentico monopolio della Nato in materia di sicurezza europea». Per di più la Nato si era fatta promotrice di una piattaforma multilaterale di sicurezza cooperativa paneuropea (la Partnership for Peace) che riproduceva formule già sperimentate nel corso della Guerra fredda.
La storia della Nato negli anni Novanta richiama la teoria dell’«impero su invito» – metafora utilizzata da Mario Del Pero in Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2006 (Laterza) – in riferimento a come si sviluppò l’egemonia americana nel secondo dopoguerra. Detta teoria si riferisce – come spiega Michael Ignatieff in Impero Light. Dalla periferia al centro del nuovo ordine mondiale (Carocci) – a un’influenza esercitata, in moltissimi casi, non con un intento esplicito di dominio ma attraverso la richiesta di sostegno prolungato di partner e alleati che, incapaci di difendersi o impossibilitati a farlo, temevano di finire sotto altre egemonie. Ma la Russia non la percepì in questo modo.
Tutto quel che si è detto fece nascere una «narrativa moscovita» secondo la quale gli Stati Uniti e i loro alleati avevano non solo deliberatamente distrutto l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche ma anche «tramato» per mantenere la nuova Russia debole, divisa, ai margini del mondo uscito vincitore dal conflitto più che quarantennale con l’Urss. Addirittura, «la Nato avrebbe alimentato le spinte indipendentiste delle repubbliche post sovietiche, tradendo accordi strategici e promesse di aiuto economico a Mosca». Nel 2007 (il 10 febbraio), Vladimir Putin, presidente della Federazione russa, in un discorso a Monaco portò alla luce questo risentimento per come erano andate le cose. «Penso – disse in quell’occasione – sia ovvio che l’espansione della Nato non abbia alcuna relazione con la modernizzazione dell’Alleanza stessa o con la garanzia della sicurezza in Europa». Al contrario, aggiunse, «rappresenta una grave provocazione che riduce il livello di fiducia reciproca». Poi si domandò: «Contro chi è destinata questa espansione, dove sono andate a finire le assicurazioni che i nostri partner occidentali avevano fatto dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia?». Trascorsero alcuni anni nel corso dei quali Putin non rimase con le mani in mano e nel 2014 (l’anno della «conquista» putiniana della Crimea) l’accademico Sergei Karaganov, in un articolo su «Izvestia», rese ancor più esplicite queste rimostranze. L’Occidente, scrisse, «ha costantemente cercato di espandere la sua zona d’influenza militare, economica e politica attraverso la Nato e la Ue». Gli interessi e le obiezioni russe, affermò, «sono stati platealmente ignorati». La Russia «è stata trattata come una potenza sconfitta, anche se noi non ci consideriamo tali». Ci è stata imposta una «versione più morbida del trattato di Versailles», cioè di quelle condizioni assai punitive applicate alla Germania dopo la Prima guerra mondiale.
La prospettiva
Secondo Alberto Leoni – in La guerra tra Russia e Ucraina. Le origini, le battaglie, la posta in gioco (edizioni Ares) – già Gorbaciov, pur condannandolo, aveva dato luce verde, invece, all’allargamento della Nato ai Paesi che avevano gravitato nell’orbita dell’Urss. Leoni si rifà all’ampia documentazione prodotta da Peter Conradi il quale, a mo’ di esempio, ha fatto osservare che la riunificazione tedesca fu portata a termine mentre il Patto di Varsavia era ancora esistente. A quel punto chiedere che membri di quel Patto non entrassero a far parte della Nato sarebbe stato «risibile». Talché l’ingresso dei Paesi ex comunisti nell’Alleanza atlantica avvenne, scrive Leoni, «con una sostanziale accettazione da parte russa». Almeno fino al 2012, quando Putin era al potere già da dodici anni.
Tornando all’ultimo decennio del secolo scorso, quello preso in esame da Marcuzzi, Umberto Ranieri – in Ucraina (Guida editori) – ha individuato due date significative per la storia di quel periodo: il 1994 con la dichiarazione conclusiva del vertice Nato di gennaio in cui si faceva esplicito riferimento all’apertura dell’Alleanza alle nuove democrazie dell’Europa centro-orientale; e il 1997, anno in cui, nel mese di maggio, Nato e Russia firmarono un documento che Giorgio Cella – in Storia e geopolitica della crisi ucraina (Carocci) – considera un’autentica «pietra miliare nei rapporti tra Alleanza Atlantica e Russia postsovietica». Nel documento, fa notare Ranieri, Mosca accettava l’espansione della Nato e in cambio la Nato rinunciava al dispiegamento permanente di «forze da combattimento significative». Nonché allo schieramento di armi nucleari nell’intera Europa orientale.
Marcuzzi mette però nel dovuto rilievo il «progressivo sfilacciamento del collante valoriale dell’Alleanza». Sfilacciamento a cui abbiamo assistito proprio negli anni in cui la Nato ha sviluppato «un’hybris retorica e un’ambizione politica» sprovviste delle «basi materiali, psicologiche e istituzionali per svolgere davvero il ruolo di gendarme del mondo». Stiamo parlando degli anni in cui il presidente francese Emmanuel Macron si spinse a decretarne addirittura la «morte cerebrale» (2019). Inevitabilmente l’assenza delle basi di cui si è detto intaccò la credibilità della Nato anche in termini di deterrenza: «Un’alleanza paralizzata – scrive Marcuzzi – non è un deterrente». Nonostante le ripetute reciproche assicurazioni del fatto che la fine della Guerra fredda non avrebbe prodotto vincitori e vinti ma solo vincitori, già alla fine del secolo scorso la Nato era divenuta «non solo più grande ma anche più ambiziosa nella sua proiezione geografica». E meno disposta a lasciarsi imbrigliare dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Questo rafforzò nella Russia putiniana la «sindrome di Versailles» di cui si è detto. Vale a dire la sensazione di essere stati sottoposti ad una pace punitiva. Che, a sua volta, generò la «sindrome di Weimar», cioè un «revanscismo crescente verso un ordine mondiale percepito come alieno, ostile, specchio di una disfatta».
Mosca, scrive Marcuzzi, reagì con rabbia crescente. Durante la guerra in Kosovo, secondo l’autore, «la Nato e la Russia andarono probabilmente più vicine a combattersi di quanto non lo fossero state durante tutta la Guerra fredda (con l’eccezione della crisi di Cuba)». S’intensificò così, in Russia, l’attesa per una figura quasi messianica destinata a riscattare l’onore nazionale ferito. E, giunto al potere, Putin cavalcò quel sentimento. Promosse l’idea di un «mondo russo» fondata su una concezione geostrategica al centro della quale erano i dodici milioni di russi che vivevano oltreconfine. E molti milioni di russofoni nei Paesi ex satelliti.
Di qui vari scenari per il futuro. Di cui il più pericoloso è quello, secondo Marcuzzi, più probabile. La Nato resta il pilastro della sicurezza europea, ma senza riforme istituzionali che ne facilitino il compito e senza un vero riavvicinamento strategico tra Stati Uniti e alleati europei. Ovvero un’Alleanza «che si trascina quasi per inerzia in uno stato di semiparalisi, fonte incerta di difesa collettiva, attore poco credibile come promotore di sicurezza cooperativa». E restio ad assumere ancora compiti di sicurezza collettiva «fuori area». Brutta prospettiva. Una situazione in cui la Nato rimanesse in vita come totem simbolico e gli europei non avessero trovato una soluzione istituzionale alternativa per unire le proprie forze in difesa dei valori e degli interessi dell’unica «casa comune» rimasta sul continente, afferma Marcuzzi, ci riprecipiterebbe nelle condizioni che precedettero l’inizio della Seconda guerra mondiale. Un rischio che con la guerra d’Ucraina è divenuto quasi realtà.