Corriere della Sera, 11 novembre 2025
E nell’America di Donald torna a crescere la distanza tra ricchi e poveri
La cattura del denaro sulla politica ha sempre prodotto diseguaglianze in America. Dai vincoli sulle banche d’affari voluti da Franklin Delano Roosevelt e pericolosamente allentati da Bill Clinton, alle assicurazioni che sabotarono al Congresso la riforma sanitaria di Barack Obama, ogni lobby ha sempre arricchito alcuni e reso la vita più precaria per molti. Ma ora, con Donald Trump, è diverso.
L’attuale presidente degli Stati Uniti ha preso i voti degli uni e li ha messi al servizio degli altri. Era stato eletto sull’onda dell’indignazione dei diseredati da decenni di commistioni fra interessi del business e politica. Ma Trump ha incassato quei milioni di voti e ha compiuto un salto all’indietro: un ritorno all’antico, verso un’altra fase di rapido aumento della disparità a spese di molti e di privilegi per pochi. È finita la breve e incerta stagione di Joe Biden in cui i ceti medi e medio-bassi, in parte, avevano limato qualche ritardo. Nei quattro anni fino al 2024 il costo medio di un anno di college privato (stimato dal College Board) era sceso dal 95% all’86% di un anno di reddito di una famiglia che lo US Census Bureau colloca nella fascia debole del ceto medio: quelli che guadagnano meno del 60% delle famiglie americane. Sempre per quelle stesse famiglie gli anni di lavoro necessari a comprare una casa era sceso sotto Biden, in media, appena sotto i sette. Progressi minuscoli, dopo decenni di degrado sotto amministrazioni repubblicane e democratiche. Ma benché sia presto per stimare la capacità di accesso al college o alla casa dopo il ritorno di Trump, le diseguaglianze sono tornate a radicarsi. Probabilmente stanno già crescendo di nuovo sull’onda dei dazi e delle politiche fiscali – aperte e coperte – della Casa Bianca. Senz’altro esse sono così vaste che per John Williams, il presidente della Federal Reserve di New York, rappresentano ormai un problema macroeconomico. Sul Financial Times, giorni fa, il banchiere centrale ha avvertito che le disuguaglianze stanno diventando un fattore nel decidere la politica monetaria. Williams si preoccupa dei «redditi bassi o moderati che hanno problemi nel potersi permettere gli acquisti, che vivono di mese in mese». Intende dire che la Fed potrebbe dover essere più attenta nel fissare il costo del denaro perché decine di milioni di famiglie faticano per i mutui sulla casa, per il credito al consumo, per spese mediche o per gli studi.
Non è strano che il problema sia così sentito. L’inflazione sta crescendo negli Stati Uniti da quando Trump ha introdotto la gran parte dei suoi dazi: dal 2,3% di aprile al 3% ufficiale di settembre, che pesa di più per la parte di americani che vedono una parte molto più importante dei loro redditi impegnata dalle spese per il cibo (il 28%, secondo Statista, dice di vivere in insicurezza alimentare). Non è un caso se l’Università del Michigan, che pubblica tutti i mesi il «sentiment» (umore) dei consumatori, ormai lo divide in tre indici diversi: uno per chi detiene azioni in borsa, un altro per i più grossi azionisti e un terzo per chi non ha risparmi da investire a Wall Street. Quest’ultimo indice è in calo continuo da inizio 2025, mentre l’umore dei consumatori che hanno le più grosse partecipazioni azionarie è in ripresa da mesi.
Neanche questo è strano perché dall’inizio dell’anno lo S&P500, primo listino di New York, ha aggiunto più di settemila miliardi di valore di Borsa anche grazie ai tagli fiscali di Trump. Ma non molti ne hanno approfittato davvero. Secondo la Fed di St. Louis, oggi in America il 10% più ricco detiene e investe il 63% dei patrimoni e il 50% più povero solo il 10% dei patrimoni. I secondi hanno subito i tagli alla sanità e ai voucher per i più poveri nel budget di Trump («One Big Beautiful Bill») per finanziare 4.000 miliardi di dollari di tagli alle tasse in dieci anni in gran parte riservati ai più ricchi. E nel weekend il New York Times ha rivelato che il Tesoro in silenzio, tramite semplici circolari, sta riaprendo scappatoie fiscali da centinaia di miliardi – che Biden aveva chiuso – per private equity, piattaforme cripto, colossi immobiliari, assicurazioni e altre multinazionali.
La crescita americana potrebbe sanare queste ferite ma essa, stima Gilles Moec di Axa, appare oggi sbilanciata; tolti gli investimenti in intelligenza artificiale e data center, che favoriscono solo alcuni, oggi gli Stati Uniti protezionisti crescono sotto al potenziale; appena l’1,4%. La Trumponomics non ha ancora superato l’esame della realtà.