La Lettura, 9 novembre 2025
L’Africa è finita nel pallone (ma non è un modo di dire)
Lo Sharqi è un vento un po’ pazzo, si fatica a ragionarci, gli parte la testa. Nello spostamento verso le coste, esso, che s’origina dall’interno dell’Africa, trascina ondate di calore – in aggiunta lo Sharqi sfianca, fa maledire, sospinge e spinge sulle città la sabbia e la polvere, ovvero le tempeste del sahra, «deserto» in lingua araba.
Il Sahara.
Viene a infastidire anche la capitale Rabat. S’infiltra, perlustra, accelera. Ma lo Sharqi s’arresta contro lo stadio Principe Moulay Abdellah, un simbolo del nuovo Marocco. Due anni appena per la ristrutturazione costata un miliardo di euro. Manovalanza locale (e qualche capocantiere turco). Una capienza di settantamila spettatori. Settanta chilometri di strisce Led avvolgono l’impianto posizionato dopo la foresta degli eucalipti, ristoro domenicale della regale Rabat: i bicchieri di tè alla menta dei grandi e le partitelle a pallone dei piccoli. Con la maglia della Nazionale. Di solito il numero 2 del capitano Achraf «Arra» Hakimi (madre donna delle pulizie e papà ambulante dei mercati, emigrati a Madrid). Una scheggia capace di toccare correndo i 36,5 chilometri orari. Il primatista mondiale dei 100 metri ha raggiunto i 37,5.
E poi, nello stadio, gli spalti a ridosso del campo quasi a invaderlo. Così da collocare virtualmente il pubblico sull’erba ibrida naturale spaventando gli avversari. Infine il tetto. Eccoci al tetto. Schermante a 360 gradi e costruito con tali requisiti giustappunto per respingere i venti molesti.
Domenica 21 dicembre, nell’approssimarsi dell’avvio di Marocco-Isole Comore, la prima partita al Principe Moulay Abdellah della Coppa delle nazioni africane (oppure, abbreviando, Coppa d’Africa), il massimo torneo continentale di calcio, 24 Paesi, 6 gironi da 4 squadre, le eliminatorie e la finale, nell’annuncio delle formazioni pronte a uscire dagli spogliatoi lo speaker leggerà un primo e un ultimo nome.
Il primo nome: Yassine Bounou; l’ultimo: Stefano Cusin.
Il portiere del Marocco Bounou. E l’allenatore delle Isole Comore Cusin.
Bounou, 34 anni, è innamorato dei cani e della squadra biancorossa del River Plate, una società calcistica di Buenos Aires. Letteraria, mitica. Sorse grazie all’incrocio dei marinai britannici nella darsena coi lavoratori argentini del porto. Scazzottate di gruppo e sfide coi primi palloni (camere d’aria avvolte dal cuoio). Figlio d’un ingegnere che lo preferiva sui libri, Bounou è venuto al mondo in Canada, a Montréal, dove il papà stesso era per lavoro.
Già vice dell’interista di Milano Walter Zenga (milanese dei caseggiati popolari di viale Ungheria) e collaboratore tecnico dello juventino Antonio Cabrini (da Cremona, campione mondiale nel 1982), dialogando con «la Lettura» Cusin, 57 anni, esalta il personale privilegio dello stare fra la gente. Lavoro, attaccamento, studio. Esplorare culture, popoli, lingue. Entusiasmarsi. Questi i temi del suo cortese conversare.
In carriera Cusin, pure lui nato a Montréal alla pari di Bounou, mamma toscana e pugliese, padre veneto, ha allenato a Cipro, in Sudan del Sud, in Francia, negli Emirati Arabi Uniti, in Bulgaria, e nell’adorata Palestina (all’Ahli al-Khalil di Hebron). Ancora s’emoziona nel rammentare «l’accoglienza che mi è stata riservata, una dolcezza infinita anche nelle partite in trasferta».
La Coppa d’Africa è all’edizione numero 35. Il Marocco ospita la competizione per la seconda volta. Le Isole Comore sono al debutto. Cusin era andato, fisicamente, di nazione in nazione, dai singoli calciatori, per convincerli ad obbedire alla convocazione all’inizio delle qualificazioni, in seguito trasformate in gloria con l’accesso alla fase finale. Primo posto nel girone senza sconfitte. Nell’arcipelago, l’assenza di stadi a norma per le partite internazionali obbliga a giocare altrove. Che pellegrinaggi. La Federazione calcistica opta per l’affitto di impianti nel Nordafrica, la parte del continente più prossima alle squadre di club. Per dire, El Fardou Ben Nabouhane, prolifico attaccante per i serbi della Stella Rossa (in 132 gare 65 gol), è rimasto a Belgrado passando allo Zemun, gli bastano un aereo oppure un breve scalo per Casablanca, Tunisi, il Cairo, e s’aggrega alla Nazionale. Il difensore Younn Zahary è in Lituania, il centrocampista Ahmed Mogni nel campionato del Lussemburgo, l’ala sinistra Rafiki Said in Belgio nello Standard Liegi.
La famiglia di Said vive a Samba Mbodoni, villaggio della Grande Comora, una delle tre isole dell’arcipelago a 11 mila chilometri dall’Italia e 600 dal continente africano (il Mozambico). In realtà le isole Comore sono quattro: Grande Comora, Mohéli, Anjouan più la francese Mayotte, Dipartimento d’oltremare di Parigi. Enclave dell’Unione europea nell’Oceano Indiano. La povertà soffoca. I tentativi e i conseguenti naufragi per approdare a Mayotte non sono d’interesse mediatico: vi sono cimiteri, nelle acque, superiori perfino al Mediterraneo. La Francia invia per lo più i Reparti speciali della polizia. Militarizzare. Le coppie comoriane ambiscono a partorire a Mayotte, le donne agli ultimi giorni di gravidanza s’affidano agli scafisti e sfidano l’oceano pur di raggiungere una spiaggia. L’avventura di Cusin e dei suoi potrebbe aiutare, veicolando i temi urgenti delle isole, vulcaniche e dalla tremenda bellezza.
Le Comore sono un ulteriore luogo della Generazione Z, delle sue idee, del suo fermento trasmesso sui social network. La Generazione Z, quella dei «nativi digitali», comprende le classi d’età dal 1997 al 2012. Negli ultimi mesi sono divampate proteste dei ragazzi anche nello stesso Marocco, e in Madagascar, Kenya, Uganda, Nigeria, Tanzania, e altrove – ma altrove nel silenzio. Soffocate con l’intervento brutale delle forze dell’ordine. Scontri, proiettili, morti ammazzati.
La Nazionale della Guinea Equatoriale (nel gruppo con Algeria, Burkina Faso e Sudan del Sud) rappresenterà una nazione angosciata da un regime feroce, di giacimenti di petrolio ma senza infrastrutture e piani strategici se non l’accumulo di benefici personali del dittatore Teodoro Obiang Nguema Mbasogo.
Il tiranno ha 42 figli dalle 4 mogli, è amico di Putin e Lukashenko, s’affida a ex agenti segreti del Mossad come guardie del corpo; pretende dalla Nazionale risultati eroici. Il calcio, nell’Africa non di meno, è propaganda pura, sfogo sociale, premio per il popolo, un’arma di distrazione di massa. La rosa guineana è invero di qualità limitata. Non basterà l’esperienza di Salomòn Obama, ala destra, passato da mestierante nei campionati di Andorra, Cipro, Armenia.
Dunque la Generazione Z (in Marocco si chiama Generazione Z212, dal prefisso telefonico internazionale). Errato credere che le istanze restino confinate oppure siano uno sfogo temporaneo, occasionale. Di superficie. Se non altro per i numeri: in Africa l’età media è 19 anni, in alcune nazioni 16 (Uganda, Mali, Angola). V’è dentro un mondo, nel continente. Una parte consistente del mondo contemporaneo e di quello prossimo venturo. Ciò nonostante, ci dice Chiara Piaggio, in libreria per Einaudi con L’Africa non è così. Cronache da un continente frainteso, vent’anni di esperienza nell’Africa subsahariana, filosofa, antropologa, «il continente soffre (ancora e ancora) d’uno sguardo sull’altro che generalizza». Il colonialismo. Il post-colonialismo. La cooperazione internazionale «che è stata tante cose – ancora Piaggio —: un inganno, una di pendenza, un alibi, un soccorso; per i detrattori, un innesco alla corruzione, per i sostenitori un aiuto fondamentale per abbassare la mortalità infantile e implementare le iscrizioni alla scuola primaria».
Dove va l’Africa? Come sta l’Africa? In Angola governa l’identico partito dall’indipendenza del 1975 (mezzo secolo fa, per festeggiare l’anniversario il 12 novembre la Nazionale sfiderà l’Argentina, di nuovo il calcio come cortina fumogena, di nuovo le spese ingenti nel pallone: ai sudamericani 12 milioni di euro come ingaggio). L’Angola, con epicentro la capitale Luanda, è stata devastata da trent’anni di guerra civile. Un portavoce del Paese è «Ondjaki», scrittore, pittore, studi in Portogallo, residenza in Brasile, fondatore a Luanda d’una libreria e una casa editrice, un tipo appassionato, un collante. Le sue opere ci fanno conoscere la Maianga, distesa di paludi e poi uno dei primi quartieri di Luanda, dove tutto si vende(va), anche i vestiti. Quelli addosso.
Dove va l’Africa? Come sta l’Africa? Si chiude oggi a Lagos, capitale della Nigeria, già 213 milioni di abitanti e destinata a divenire la terza nazione più popolosa del mondo, «Art X». Una virtuosa rassegna d’arte e cultura fondata da Tokini Peterside-Schweibig. Come l’angolano «Ondjaki», ha studiato e si è specializzata all’estero (Londra, Francia, Singapore). Figlia del potente banchiere Atedo, la dottoressa Tokini forse ambisce a un futuro da leader politico. In Nigeria il salario minimo è di 30 dollari, le insidie terroristiche di Boko Haram e della sua costola poi rivale Iswap, mai cessano.
Peterside-Schweibig favorisce il dialogo interculturale, pensa che l’Africa debba essere punto d’approdo anziché di fuga, invita i migranti a compiere con coraggio e fiducia il percorso inverso e rimpatriare, s’àncora alla «forza vitale» del continente, investe su artisti come Nicéne Kossentini da Sfax, Tunisia, città sul Mediterraneo dove grazie ai maxi-finanziamenti dell’Unione europea è stato incrementato il contrasto agli scafisti (anche fruendo dell’assistenza della nostra Guardia di finanza).
Kossentini ha 49 anni, la sua arte poggia su fotografie e video; si è formata in Europa ed è rientrata in Tunisia concentrando gli studi sul Maghreb.
Tradizioni, popoli, anime, il futuro.
Sfax vanta una nomea di datata sfrenata adesione al calcio, ma in Africa il pallone è sempre una pulsazione, sempre, una parte dell’anima; perdetevi nell’Africa e cercando la via troverete un campetto. Storto, perfino in bilico. Ma lo troverete. Anche all’approssimarsi del deserto.
Si mitizza troppo il pallone sudamericano. L’Africa, col calcio, ci flirta anche da dormiente.
La Tunisia è uno dei Paesi più quotati dalle agenzie di scommesse per la vittoria della Coppa d’Africa, alla pari della confinante Algeria, allenata dal furbo maestro di Sarajevo Vladimir Petkovic, e ispirata, laddove il fiato e le ginocchia reggono, da Riyad Mahrez, ruolo ala destra, classe superiore, papà algerino e mamma di origini marocchine, protagonista, nel 2015-2016, della favola del Leicester del sor Claudio Ranieri, l’inattesa conquista del campionato britannico. In Algeria il pallone si diffuse alla fine dell’Ottocento, e più tardi, nella lotta d’indipendenza, il Fronte di liberazione nazionale ebbe una sua «Nazionale», dal 1957 al 1962, che disputò amichevoli in Libia, ad Aleppo, a Gerusalemme, in Bulgaria e Romania, nell’ex Jugoslavia.
Abbiamo menzionato il 1957. L’anno della prima edizione della Coppa d’Africa, a Khartoum, in Sudan, quattro squadre e vittoria dell’Egitto, il Paese più decorato nell’albo d’oro (7 volte). Quattro tra le favorite dell’edizione 2005 (Marocco, Tunisia, Algeria ed Egitto) appartengono al Nord. Nella geografia manca soltanto la Libia, ma il miliardario piano di investimenti a società della famiglia Haftar – non più l’anziano generalissimo bensì i suoi figli – dovrebbe generare progressi anche nel pallone. Collegamenti aerei diretti con l’Italia, il progetto del tratto autostradale tra Bengasi e Tripoli che sembra prossimo allo sblocco, le continue missioni degli imprenditori europei in una nazione da ricostruire per intero. In Libia le opportunità sono ampie. C’è da edificare, arredare, far mangiare e divertire.
Pronostici calcistici assegnati anche al Camerun, che in Coppa d’Africa ha trionfato cinque volte e per undici volte, un record, ha ottenuto il Pallone d’oro africano assegnato al miglior giocatore. Il Camerun è nel girone F, il meno scontato: Costa d’Avorio, Gabon, Mozambico. Wilky Ndong è il capo della redazione sportiva del giornale «Union», in Gabon: il campionato locale si disputa con lunghe pause in quanto è lo Stato che paga gli stipendi ai calciatori. E lo Stato non versa in buone condizioni. Il giornalista ci parla della formazione gabonese: «Siamo in crescita. Attenzione ad Averlant».
Teddy Averlant è un centrocampista, gioca in seconda serie francese... Mentre il Camerun... In porta Onana, in difesa Tchatchova, a centrocampo Anguissa, potenza del Napoli, in attacco Mbeumo ed Etta Eyong. Tanta roba.
Del Camerun è anche l’ex calciatore Jean-Claude Mbvoumin, guida di «Foot Solidaire», fra le prime organizzazioni di contrasto al football trafficking.
La «nuova tratta degli schiavi», la chiamano. Una piaga vera.
Sedicenti (oppure autentici) procuratori, finti agenti della Fifa, la Federazione internazionale del pallone, mediatori che in realtà sono diabolici esseri, sfruttatori, aguzzini. Il fenomeno dei traffici illeciti del calcio s’ambienta specie nell’Africa subsahariana, estesa fascia di nazioni di povertà estrema. I predoni della gioventù africana agganciano i ragazzini presunti futuri campioni e convincono i loro familiari; ma questi ragazzini debbono andare in Europa per i provini, e per andare servono soldi, spese che, ovvio, con gli ingaggi mastodontici non appena sfonderanno verranno ripagate, allora i genitori, gli altri parenti, tutti quanti nel villaggio sborsano il denaro, s’indebitano per generazioni, i ragazzini partono, però in Europa rimangono a spasso, non esiste nessuna squadra, nessun provino, è un colossale raggiro, una balla, non hanno che un visto turistico a breve termine – la prassi delle organizzazioni criminali contempla anche il sequestro del passaporto —, gli accompagnatori spariscono, i ragazzini diventano cittadini irregolari, sicché se sorpresi verranno arrestati. Espulsi. O rinchiusi in un qualche centro.
Un altro di quelli che appena può si danna per sensibilizzare sul fenomeno è Didier Drogba, ivoriano, ex attaccante, fra i maggiori campioni del calcio, e fonte d’ispirazione continua per Victor Osimhen, stesso ruolo, attuale trascinatore della Nigeria. A 6 anni Victor perse la mamma che vendeva bottiglie d’acqua ai semafori, e lui la sostituì. Stesso incrocio, stessi prodotti. Bellissimo giocatore, Osimhen. Talento in un elenco ristretto. Dieci nomi. I prescelti da cui uscirà il migliore giocatore africano del 2025. L’Egitto si fonde nella maestria e nella grazia del suo capitano Mohamed «Momo» Salah, ruolo attaccante, un metro e 75 dal villaggio agricolo di Nagrig, ambasciatore Unicef, musulmano praticante, l’esultanza dopo il gol con il sujud, il momento di profonda umiltà durante le preghiere in cui ci si china fino a toccar terra con la fronte.
Nell’elitario gruppetto dei dieci candidati figurano i senegalesi Pape Matar Sarr e Iliman Ndiaye, allenati dal selezionatore Pape Thiaw, che ha concluso la carriera da giocatore sull’isola della Riunione, un Dipartimento francese (come Mayotte nell’arcipelago delle Comore) lontano 420 chilometri dal Madagascar.
Ovunque pur d’avere un ingaggio; ovunque senza paura; ovunque pur di tenersi un mestiere-privilegio.
L’isola della Riunione. Dove?
Thiaw avrà di sicuro argomenti di conversazione col collega belga Tom Saintfiet, alla guida della Nazionale del Mali, 52 anni, reduce dalle esperienze in Etiopia, Malawi, Togo, Gambia, Filippine, Malta, Yemen, Bangladesh, Zimbabwe, sulle isole Fær Øer, al B71 di Sandur, allo Shabab al-Ordon di Amman, in Giordania, e al RoPS di Rovaniemi, nelle terre di Babbo Natale.
Nel Mali di Saintfiet (laureato in Psicologia dello sport), oltre la metà della superficie è deserto; gli abitanti sono ventuno milioni; è il Mali della presenza e delle manovre delle milizie paramilitari russe, prima la Brigata Wagner quindi la sua erede, la formazione degli Africa Corps che sarebbe diretta dal Gru, il Servizio segreto militare. Fosfati, oro, uranio, ferro, il sottosuolo è una sequenza di ricchezze. Appetiti planetari. Mosse per infiltrarsi in Africa. Al solito. Per corrompere. Per pilotare i politici. Alcuni dei quali ultra-longevi, anche novantenni, moribondi, «dinosauri» li definiscono, eppure agganciati al potere e all’accumulo di denaro; sì, però in Burkina Faso comanda Ibrahim Traoré, che compirà 40 anni nel 2028. Fra i più giovani leader nel mondo. Ha una formazione militare, è legato alle associazioni musulmane. La sua Federazione calcistica, ci racconta Lassina Sawadogo, giornalista, «ha reso una realtà il movimento femminile. Siamo un popolo che resiste, onesto. E non è affatto vero che mancano le strutture, stiamo potenziando i centri d’allenamento».
Sul modello, per intanto inarrivabile, del Marocco.
L’accademia Mohamed VI sorge a Salé, fuori da Rabat. Mohamed VI è il re, salito al trono dopo i 38 anni di regno del padre, che portava abiti di sartoria italiana, citava Machiavelli, predicava la tolleranza religiosa e fece del Marocco uno dei primi Paesi arabi a riconoscere lo Stato d’Israele. Di suo Mohamed VI, che da giovane monarca (oggi ha 62 anni), si dichiarò contro il burqa («Prigione infame»), ha promesso ai giovani della Generazione Z212 l’incremento dei servizi pubblici, la lotta alle diseguaglianze regionali e un sostegno all’occupazione. La politica calcistica rappresenta un ulteriore aiuto all’elaborazione di un’immagine «diversa» del Marocco. Il numero più cospicuo di giocatori della Nazionale è nato all’estero: i già menzionati Bounou e Hakimi in Canada e Spagna, Boufal a Parigi, Amrabat e Mazraoui in Olanda.
I marocains du monde, i marocchini nel mondo, sono quattro milioni. Il calcio è esso stesso instrumentum regni. Da un lato il reclutamento sul territorio nazionale dei migliori prospetti da radunare nell’Accademia (a Salé sono cresciute le perle del trionfo ai Mondiali under 20 in Cile, tipo Yassir Zabiri, attaccante acrobatico); dall’altro una capillare campagna di osservatori nei continenti per individuare ragazzini figli o nipoti di marocchini così da far assumere loro la doppia cittadinanza. E arruolarli in Nazionale. Brahim Diaz (del Real Madrid) ha genitori spagnoli ma il nonno paterno marocchino. E tanto è bastato. In Marocco lo chiamano utilizzando più il secondo nome, a rimarcare le origini arabe, anziché col cognome iberico: Abdelkader, che sta per «servo d’Allah».
Continenti, nazioni. Viaggi.
Elio Capradossi ha 29 anni, è un difensore dei romeni dell’U Cluj; mamma congolese, papà italiano, è stato convocato nel 2024 dalla Nazionale dell’Uganda essendo nato nella capitale Kampala.
Cédric Bakambu, 34 anni, è dell’hinterland di Parigi; ha iniziato con le Nazionali giovanili francesi. Nel 2015 ha accettato la chiamata del Congo, la nazione dei genitori, migranti. Spesso dice: «Io grazie al pallone mi sono riconnesso con la mia storia».