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 2025  novembre 09 Domenica calendario

Arabi ed ebrei. L’arma spuntata del semitismo

Benjamin Netanyahu e i suoi usano bollare come antisemita chiunque osi criticare Israele, il suo governo o anche solo esprimere riserve sul suo operato. Sul versante opposto, c’è chi si vanta di essere antisemita, confondendo deliberatamente ebrei, sionismo e Israele. Che lo ammettano o meno, gli uni e gli altri si supportano a vicenda – e lo fanno usando la parola sbagliata.
Il termine «antisemitismo» è storicamente recente, se commisurato agli almeno 18 secoli di ostilità verso gli ebrei – teorizzata dalla patristica cristiana fin dal III secolo e formalizzata dall’Impero romano nel 380, quando la nuova religione divenne la sola autorizzata. Il vocabolo fu inventato nell’Ottocento da alcuni intellettuali europei (il primo fu il tedesco Wilhelm Marr, fondatore nel 1879 della Antisemiten-Liga) che volevano riattizzare il plurisecolare odio antiebraico dandogli una forma moderna; come ha scritto il grande orientalista Bernard Lewis, l’antisemitismo fu «la risposta del cristiano secolarizzato, ormai incapace di servirsi di argomenti teologici, contro l’ebreo emancipato».
Per Marr in Germania, Édouard Drumont in Francia, Houston Chamberlain in Gran Bretagna, Alexandru C. Cuza in Romania – fondatore nel 1895 della Liga Antisemita Universala e futuro collaboratore dei nazisti – essere antisemiti era un vanto, un programma politico e un sicuro pegno di popolarità. Ma la parola era frutto di un errore.
Come spesso capita agli intellettuali, anche costoro non facevano che spalmare una presunta patina culturale su sentimenti in voga, servendosi del materiale a disposizione. Un secolo prima, nel 1781, il linguista tedesco August Ludwig von Schlözer aveva chiamato «semitiche» (dal nome di uno dei tre figli di Noè, Sem) una serie di lingue dalle caratteristiche morfologiche e sintattiche molto simili parlate nel passato e nel presente nella regione che oggi indichiamo come Medio Oriente: l’arabo, il fenicio, l’aramaico, l’ebraico, l’assiro, eccetera.
Sulla scorta di Linneo, le classificazioni erano l’ultimo grido della scienza in quello scorcio di Settecento. La classificazione delle «razze» umane, però, non prese forma che un secolo più tardi, quando il francese Arthur de Gobineau, servendosi delle prime ricerche sull’evoluzione, formulò la tesi della loro «naturale» ineguaglianza e ne concluse, ovviamente, che «la razza bianca» aveva «il monopolio della bellezza, dell’intelligenza e della forza».
Fare di una pertinente distinzione linguistica una impertinente distinzione razziale fu un passo politico, utile a fornire una giustificazione «scientifica» alle imprese coloniali. Gli orgogliosi antisemiti dell’epoca, applicando una categoria linguistica ai «semiti» che avevano sottomano – gli ebrei – per legittimarne l’inferiorità rispetto alla «razza bianca», ignoravano del tutto i semiti rimasti in Asia occidentale – cioè gli arabi, pressoché invisibili ai loro occhi europei e casomai un gradino più sotto ai semiti d’Europa.
All’epoca di Gobineau e di Marr, circa l’80 per cento degli ebrei del mondo viveva nel Vecchio Continente (in gran parte nell’Impero russo); gli altri erano distribuiti nel Maghreb, in Etiopia, nello Yemen, in Persia, nell’Impero ottomano e in America; vi erano piccole comunità in Cina e in India e, infine, tra 5 mila e 20 mila si trovavano in Palestina – su un totale mondiale di 7,8 milioni (secondo il computo di Sergio Della Pergola); nella sola città di Istanbul, ve n’erano centomila, tra cinque e venti volte di più. «Prima del 1850 – si può leggere in un’inchiesta della Società delle Nazioni del 1920 – in Palestina non si trovava che una manciata (a handful) di ebrei. Nei successivi trent’anni, diverse centinaia si aggiunsero. La maggior parte era animata da motivazioni religiose; venivano per pregare e morire in Terra Santa, e per essere sepolti nel suo suolo».
Se rimaniamo nel campo linguistico, tralasciando considerazioni razziali prive di serietà e di decenza, dobbiamo trarre da queste cifre una conclusione importante: nella seconda metà dell’Ottocento, solo gli ebrei di Palestina, del Maghreb e dello Yemen parlavano una lingua semitica – ed era l’arabo, nelle sue varianti dialettali. Gli altri parlavano soprattutto lingue indoeuropee (yiddish, judezmo, tedesco, russo, francese, inglese, farsi e altre). In che misura, dunque, questa enorme maggioranza di ebrei poteva essere considerata «semita»?
E se proprio dobbiamo occuparci di distinzioni biologiche, pochi avevano conservato intatto il patrimonio genetico degli antichi abitanti di Giudea – e alcuni non lo avevano mai avuto. Tra chi vantava una discendenza dagli ebrei emigrati o espulsi dalla Palestina tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., molti si erano in varia misura mescolati con gli europei incontrati per via – tra questi i famosi «ebrei dagli occhi azzurri» ashkenaziti, malvisti da sefarditi e mizrahi, che hanno fondato Israele e lo hanno governato fin da allora. Molti altri discendevano invece da comunità sorte lontano dalla Palestina: assiri di Adiabene, convertitisi al giudaismo nel I secolo; arabi di Himyar (Yemen), convertiti nel IV secolo; berberi Djerawa, e di almeno altre cinque tribù elencate da Ibn Khaldun; e turchi, fondatori nel Caucaso del nord del khanato khazaro esteso su un ampio territorio tra Kiev e il mar Caspio, convertitisi nell’VIII secolo.
Duole dirlo, ma l’idea di una «razza» ebraica «pura» ha fatto breccia in alcune correnti del sionismo radicale – giustamente definito «di estrema destra». Ovviamente, non siamo più nel campo della genetica ma in quello dell’ideologia, costruita ad arte a fini di mobilitazione politica. Purtroppo per loro, però, quegli stessi arabi di cui hanno occupato le terre e che vorrebbero sloggiare una volta per tutte sono sicuramente più «semiti» di loro.
Nel 1905, il sionista ucraino Dov-Ber Borochov affermava che i contadini della Palestina erano «i discendenti diretti del reliquato della comunità agricola giudea e cananea». Il futuro fondatore e primo ministro di Israele, David Ben Gurion, scriveva nel 1918 che, proprio per quella ragione, gli arabi della Terra Santa erano «ossa delle nostre ossa e carne della nostra carne». Dopo la rivolta antiromana di Bar Kokhba (132-135), spiegava lo storico sionista Israel Belkind nel 1928, gran parte degli ebrei delle città fu dispersa, ma i contadini rimasero nelle loro terre e, nei secoli, la maggior parte di loro si convertì prima al cristianesimo e poi all’islam.
Paradosso dei paradossi, la genetica lo conferma: in uno studio pubblicato nel 2000 sulla rivista «Human Genetics» si può leggere che «parte, o forse la maggioranza, dei musulmani che vivono (in Palestina) discendono dagli abitanti locali, perlopiù cristiani ed ebrei, convertitisi dopo la conquista islamica». Aggiungiamo, per completezza, che gli attuali palestinesi sono perlopiù il prodotto di una somma di apporti semitici, dovuti alla progressiva contaminazione araba – dalla conquista di Gerusalemme nel 637 fino al IX secolo – delle popolazioni locali samaritane ed ebraiche di lingua aramaica, convertitesi in maggioranza all’islam solo sei secoli più tardi.
Le razze non esistono, e le nazioni sono un artificio. Ma la vecchia abitudine di rubare la terra altrui e di uccidere chi vi abita ha sempre avuto bisogno di giustificazioni grandiloquenti. Sapere che l’arma del «semitismo» è storicamente spuntata non cambierà nulla alla retorica di Netanyahu e al razzismo antiebraico di Hamas. Ma magari solleverà un lembo al velo che copre la loro ipocrisia.