Il Messaggero, 10 novembre 2025
Dal Sud al Nord per curarsi. La mobilità sanitaria costa ogni anno 5 miliardi di euro
Nelle scorse ore hanno fatto molto scalpore le parole del governatore dell’Emilia-Romagna, Michele de Pascale. Il quale, pur guidando una delle Regioni riconosciute come un’eccellenza sanitaria, ha lanciato un grido d’allarme perché «non ce la facciamo più, non riusciamo più a soddisfare i nostri cittadini e l’enorme pressione delle altre regioni che si vengono a curare in Emilia-Romagna e ci stanno intasando il sistema».
De Pascale è stato l’ultimo amministratore a lamentarsi del cosiddetto fenomeno della mobilità sanitaria. Un “turismo” che vede ogni anno masse di malati abbandonare i loro territori di riferimento, soprattutto se residenti nel Mezzogiorno, e mettersi in viaggio per andare a curarsi dove le strutture sono migliori. Cioè quelle di Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Forse il migliore indicatore per sottolineare le differenze sull’erogazione dei servizi in questo campo tra le Regioni italiane e, come aggiunge l’Agenas, «per comprendere le criticità del Servizio Sanitario Nazionale».
Secondo la Fondazione Gimbe, il fenomeno costa alle casse dello Stato qualcosa come 5 miliardi all’anno. E un tempo i territori che attraevano pazienti da tutt’Italia non disdegnavano questi movimenti, perché garantivano loro il pagamento di ricchi Drg. L’uscita di de Pascale dimostra la difficoltà anche dei territori più virtuosi nel garantire le prestazioni ai loro cittadini. Mentre le aree più deboli, fa notare il governatore emiliano, «di fatto pagano due volte, per il reparto che non sfruttano vengono e per i loro cittadini che a curarsi qui da noi».
A peggiorare le cose il progressivo invecchiamento della popolazione, che quindi necessita di più cure, e lo stock di prestazioni non erogate durante il Covid che ha finito per allungare le liste d’attesa. In questo nuovo scenario, infatti, per quanto la bilancia penda a sfavore del Mezzogiorno, non vale neppure più la dicotomia tra un Nord all’avanguardia e un Sud in ritardo.
Gu ardando alle pagelle stilate dal ministero della Sanità in base ai Lea, i livelli essenziali di assistenza – i dati pubblicati al 2023 – hanno raggiunto un punteggio sufficiente per il servizio offerto in ospedale, per le azioni di prevenzione e l’organizzazione distretto Piemonte, Lombardia, provincia autonoma di Trento, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Campania, Puglia e Sardegna.
La Valle d’Aosta, per esempio, è stata rimandata per le cure in corsia, la Basilicata per l’assistenza distrettuale. Abruzzo, Calabria e Sicilia, da un lato, la provincia di Bolzano, Liguria e Molise, dall’altro, sono accomunati dai ritardi nella prevenzione.
Nel suo ultimo rapporto sulla mobilità sanitaria, Agenas ha stimato che dalla Puglia il 65,85 per cento dei pazienti si sposta in altri territori per interventi di chirurgia ambulatoriale maggiore. Un terzo degli abruzzesi e un terzo dei calabresi deve mettersi in viaggio per fare esami di medicina nucleare come scintigrafie e tac. Sempre dalla Calabria il 33,2 per cento dei malati va altrove per le cure radioterapiche.
Le carenze locali, poi, non risparmiano soprattutto le categorie più deboli come bambini e anziani. Sul primo fronte Save the Children ha scoperto che crescono i livelli di migrazione in ambito pediatrico. Inutile dire, soprattutto nel Mezzogiorno e nelle regioni del Centro che più risentono della congiuntura. Se l’indice medio nazionale si è attestato all’8,7, il panorama per il resto è a macchia di leopardo: ha dovuto mettersi in viaggio il 3,4 per cento dei piccoli pazienti del Lazio – ma qui opera un’eccellenza mondiale come il Bambino Gesu – il 23,6 della Calabria, il 26,8 dell’Umbria, il 30,8 della Basilica e il 43,4 del Molise.