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 2025  novembre 10 Lunedì calendario

"Il poker? Mi piace giocare non vincere"

Se chiedete a Marco Bellocchio, vi dirà che ancora non ha capito quando Alessandro Haber recita e quando, invece, dismette i panni d’attore. Tra lui e i personaggi c’è sempre una compenetrazione profonda, non figlia del mestiere («mai usato») ma di un’intimità viscerale, che scava nelle crisi («è lì che puoi sondare te stesso»). Ed è proprio questa simbiosi che Haber porta in scena con Volevo essere Marlon Brando: una pièce (alla Sala Umberto di Roma dal 18 al 23 novembre), diretta da Giancarlo Nicoletti, sulla carta autobiografica ma che in realtà si avvinghia e cresce attorno a quella malinconia che accompagna le sue giornate. «So di essere in lista di attesa», ammette l’attore, oggi 78enne.
Se si volta indietro, cosa vede?
«Ho vissuto intensamente, sono caduto e mi sono rialzato, senza mai cercare strade facili. Ho sempre cercato la crisi – anche a teatro – perchè l’imperfezione fa crescere mentre la felicità, dopo un po’, non mi dice granchè. Poi certo, ammetto di aver privilegiato l’artista più che l’uomo Haber: sul lavoro mi sono dato senza ritegno, mentre nel privato... Il fatto è che il palco è la mia droga: mi ubriaco di lui perché mi fa godere, alla stregua di un amplesso, distogliendomi dai pensieri che mi turbano».
Quale fantasma cerca di tenere più lontano da sé?
«Lo spettro della morte. Sono appena stato a Napoli e guardavo le bellezze di questa città come se volessi salutarla per un’ultima volta, pensando: “Forse non ti rivedrò più, Castel dell’ovo”. ormai guardo tutto ciò che mi circonda accarezzandolo. È una strana forma di malinconia, che a volte ha il peso della depressione».
Non è credente, come i suoi genitori?
«È inutile che ce la raccontiamo: la vita è davvero, radicalmente, un mistero. Non c’è nessuna formula che garantisca la verità. Forse l’esistenza è solo una grande menzogna, ma il fascino della vita sta proprio in questa incognita. Ci attacchiamo alle cose del mondo – chi al lavoro, come me, chi all’amore, o alla fede – proprio per non impazzire, imprigionati da questa grande incertezza».
Ha paura del trapasso?
«Vorrei non accorgermene. E vorrei anche poter dare una sbirciatina al mio funerale. Mi piacerebbe se fosse una cosa semplice, disincantata. Non vorrei che la gente piangesse ma che ci fosse solo una suggestione malinconica, legata al piccolo vuoto che percepiscono per la mia dipartita. Quanto al discorso, conosco già quello di Giovanni Veronesi perchè me lo lesse durante la trasmissione Maledetti amici miei. La cosa però che mi devasta davvero sono le vite spezzate in guerra: bambini che ancora non avevano assaporato nulla e non sapranno mai cosa hanno perso».
È vissuto a Tel Aviv, dove giocava con i ragazzi di tutte le confessioni. La saggezza dei bambini?
«Non ricordo alcun odio. I bambini travalicano ogni sovrastruttura. Quello che è accaduto in Palestina è stato devastante. Vorrei che il Papa non si limitasse a invocare la pace ma facesse qualcosa di concreto come uno sciopero della fame, a costo di morire. Davanti a una scelta del genere, il mondo si fermerebbe».
È vero che ha impiegato sei anni per prendere il diploma delle medie?
«Ci avrei messo pure di più, se i miei non mi avessero fatto sostenere l’esame da privatista, di fatto comprandolo. Ci ho impiegato molto perchè avevo sempre tre o quattro in condotta: insultavo i prof, litigavo con i compagni. Ero un bambino esagitato, iperattivo: non capivo il senso di stare a scuola. Io sapevo già di voler fare l’attore. Fu un errore perchè la cultura è fondamentale».
Quando non era sul set, giocava a poker. Bravo com’è a recitare, sarà stato bravissimo a bluffare?
«No, ero un giocatore normale, a cui però non interessava vincere. Preferivo perdere: mi piaceva il gioco in sè, le emozioni che dava. Quando vinci offri una cena e finisce lì, mentre sa quanti umori si scatenano quando fallisci? Anni fa a Natale giocai a carte con Gian Maria Volontè: mi ha sderenato. Persi 4 milioni, me ne condonò due. Ma non sono mai stato ludopatico: il lavoro è la mia unica droga».
In realtà negli Anni 80 la provò: cosa cercava nella droga che le mancava?
«Iniziai per moda: si drogavano tutti. Andai avanti per un paio di anni: mi facevo quando non ero sul palco e questo mi fa pensare che sotto sotto era una forma di autodistruzione inconscia. Senza il palco non sto bene. Buttai via tutto quando, a causa della droga, feci... cilecca. La droga rimpicciolisce tutto e io preferivo di gran lunga scopare che sballarmi».
Rimpianti?
«Il no a Vittorio De Sica per Il giardino dei Finzi Contini. Mi fa ancora male parlarne. Rischiai anche di perdere Sogni d’oro: risposi a Nanni Moretti mentre stavo facendo sesso, senza fermarmi, e lui si offese. Mi ero preso troppa confidenza, secondo lui. Non mi pento invece di aver rifiutato Striscia la notizia: mi proposero una cifra milionaria, ma ai tempi il cinema era precluso ai personaggi tv».
Il suo amore più grande?
«Giuliana De Sio. Ci impiegai tanto a conquistarla, ma ne è valsa la pena. Lei aveva 18 anni, dieci meno di me, veniva dalla cultura hippie e mi vedeva un po’ come un borghese. Io stavo con un’altra donna ma appena la conobbi pensai solo a lei. Nella mia vita ho avuto tanti amori, ma dopo tre anni (al massimo) finivano. Lo capisco: metto sempre il lavoro davanti a tutto, giustamente la partner si sente trascurata».

Si promuove almeno come padre?
«No, sono un disastro! Per riuscire a fare bene, cerco di impersonare il personaggio del padre... Però darei la vita per mia figlia Celeste».