Corriere della Sera, 10 novembre 2025
Come sta (davvero) l’Amazzonia
Solo cinque chilometri separano l’isola di Cumbu da Belém, una breve traversata sul rio Guamá, uno dei tanti piccoli bracci in cui si perde il potente Rio delle Amazzoni alla sua fine. E, d’improvviso, si entra in un altro mondo. Di qui, la foresta tropicale, le palafitte di legno che combattono l’erosione delle rive, i ristorantini che servono pirarucú, l’enorme pesce rosso che vive in queste acque marroni, e poi l’imponente Samaúma, l’Albero della Vita reso famoso dal film Avatar. Di là, i grattacieli, le case fatiscenti dove vive metà della popolazione urbana e l’Hangar dove oggi si apre la Conferenza sul clima dell’Onu, o Cop30.
«L’accordo di Parigi (firmato 10 anni fa, ndr) sta producendo progressi concreti, ma dobbiamo accelerare in Amazzonia», ha detto ieri Simon Stiell, segretario generale dell’Unfccc, l’organismo dell’Onu sul cambiamento climatico. La scelta di Belém, fortemente voluta dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, è simbolica. I leader mondiali onoreranno il «polmone verde» del pianeta?
Gli scienziati stimano che le foreste tropicali contengano il riscaldamento globale di oltre 1° C, grazie alla loro capacità di assorbire grandi quantità di CO2 e di raffreddare il pianeta producendo vapore acqueo e nuvole. Capacità in calo dagli anni ’90 a causa della deforestazione: 8,1 milioni di ettari di foresta sono andati perduti a livello globale nel 2024, il 63% in più rispetto alla traiettoria necessaria per arrestare la deforestazione entro il 2030.
Deforestazione zero
È la promessa di Lula per l’Amazzonia brasiliana. Alla Cop porta un dato positivo: il tasso di deforestazione tra il 1° agosto 2024 e il 31 luglio 2025 è diminuito dell’11,04%, passando dai 6.518 km quadrati dei 12 mesi precedenti a «soli» 5.796 km quadrati. Circa il 60% è dovuto al «taglio raso», cioè quando la foresta viene completamente abbattuta per altri utilizzi, perlopiù pascolo. Ma João Paulo Capobianco, alto funzionario al ministero dell’Ambiente, osserva che «se non fosse per la situazione climatica estremamente grave, che ha portato l’anno scorso a incendi abnormi, avremmo il tasso di deforestazione più basso della storia».
L’Amazzonia è anche il laboratorio di progetti di riforestazione innovativi, «rivenduti» sotto forma di crediti di rimozione del carbonio alle aziende inquinanti. Google, ad esempio, acquisterà dalla startup brasiliana Mombak crediti di compensazione per 200.000 tonnellate di CO2 emesse dai suoi data center, divoratori di energia. Le società Big Tech – Google, Meta, Salesforce e Microsoft – hanno perfino creato un gruppo d’acquisto, la Symbiosis Coalition, e il Brasile è il Paese con il maggior numero di progetti in fase di approvazione. Il prezzo? Tra 50 e 100 dollari per tonnellata di CO2.
Il Fondo per le foreste
Agli ambientalisti piace senz’altro di più la Tropical Forests Forever Facility lanciata da Lula alla Cop. Gestito dalla Banca mondiale, il Fondo dovrebbe partire con un capitale iniziale di 25 miliardi di dollari in contributi governativi – ma finora ne sono stati raccolti meno di 6, di cui 3 dalla Norvegia – per raggiungere ben 125 miliardi coinvolgendo il settore privato. Soldi che pagheranno uno «stipendio annuale» ai Paesi in grado di proteggere le foreste tropicali sul proprio territorio. Almeno il 20% andrà alle comunità indigene. «Non ci credo», commenta al Corriere Adriano, leader del popolo Karipuna, in Rondônia, nel Nord del Brasile. «Chi riceverà questi soldi? Chi ne trarrà beneficio? La Norvegia da tempo fa donazioni ma alla mia gente non è mai arrivato nulla. Non è colpa della Norvegia, ma di chi gestisce i soldi in Brasile. Perché non li danno a noi? Abbiamo la capacità tecnica, finanziaria e legale per gestirli. Intanto, il mio territorio è ancora invaso da taglialegna e accaparratori di terre». E poi ci sono gli interessi minerari. Un rapporto di Earth Insight denuncia che in tutta l’Amazzonia ben 31 milioni di ettari di territori indigeni sono sovrapposti a siti di trivellazione di petrolio e gas, e altri 9,8 milioni di ettari sono minacciati da concessioni minerarie.
Le trivelle di Stato
Non è stato un bel segnale, poco prima della Cop30, il via libera alle trivellazioni esplorative lungo la foce del Rio delle Amazzoni, a meno di 500 chilometri dalla costa e da uno degli ecosistemi più fragili e preziosi del pianeta. «Inizieremo subito», ha fatto sapere la compagnia statale Petrobras, dopo aver ottenuto la licenza. Contraddizioni di Lula, «ambientalista riluttante», che ha difeso la scelta in nome dello sviluppo economico: «Il Brasile non butterà via le sue ricchezze», ha detto ai giornalisti, sostenendo che i futuri proventi del petrolio finanzieranno la transizione energetica e miglioreranno la vita della popolazione.