repubblica.it, 9 novembre 2025
Russia e Ucraina ora si combattono in Africa
Articolo pubblicato in origine sulla Gazeta Wyborcza
Dal punto di vista ufficiale, il famoso Gruppo Wagner non esiste più. I wagneriani intesi come unità coesa non sono più attivi, ma è complesso indicare la data esatta della morte della compagnia, a differenza di quella del suo fondatore e capo, Evgenij Prigožin, che il 23 agosto 2023, in seguito a una breve ribellione e a una marcia alla guida dei suoi mercenari, è morto in un incidente aereo.
Formalmente, i membri del gruppo che hanno prestato servizio in Africa sono stati nazionalizzati dal Ministero della Difesa russo, che ha istituito una nuova formazione denominata scherzosamente Africa Corps, in riferimento alla famosa unità africana nazista del generale Rommel. Secondo le stime degli analisti delle attività militari russe al di fuori delle frontiere del paese, che si basano su fughe di notizie e sull’Open Source Intelligence, come il monitoraggio di diversi canali su Telegram e sui social network russi, il 70-80 per cento di tutti i mercenari in servizio nel Gruppo Wagner è passato sotto il comando di nuovi superiori, e cioè, in sostanza, del Cremlino.
Il problema di questa linea narrativa è solo uno: è vera solo in parte.
Le attività del Gruppo Wagner su altri continenti costituiscono una delle storie più mitizzate della geopolitica moderna. Ciò non sorprende particolarmente, perché il materiale di partenza è a dir poco incredibilmente suggestivo. Il protagonista è un tale Prigožin, un modesto ristoratore di San Pietroburgo, che lentamente, ma inesorabilmente, si trasforma in un potente oligarca con un patrimonio da miliardario, un esercito privato e l’accesso all’orecchio del leader del suo paese. Siamo a metà del secondo decennio del ventunesimo secolo, l’Occidente non teme Putin come oggi, anzi, praticamente ancora lo sottovaluta, ma i wagneriani stanno già seminando il panico.
Da un lato rappresentano un grande mistero, dall’altro il simbolo dell’imperialismo russo che emerge di nuovo e della nostalgia dei tempi della guerra fredda, quando l’Unione Sovietica, tanto compianta da Putin, inviava armi e istruttori militari in ogni continente. Il fascino verso il Gruppo Wagner, intrecciato all’orientalismo così tipico dell’Occidente, genera un’enorme cacofonia e restituisce l’immagine di un gruppo che è stato molto più potente nell’immaginario collettivo rispetto a quanto lo fosse nella realtà.
Ciad, Guinea, Nigeria, Sierra Leone e Somalia. Russia House è ovunque
Nel 2023 il Wall Street Journal pubblica una mappa dalla quale si evince che il Gruppo Wagner è attivo in oltre 40 paesi in Africa. Più tardi, Bloomberg annuncia in pompa magna la prima di un’inchiesta sui dettagli delle attività del Gruppo Wagner nella Repubblica Centrafricana, dove gli uomini di Prigožin si sono costruiti una solida base. Il materiale multimediale, ricco di immagini satellitari e di animazioni spettacolari, suscita un gran scalpore su Internet, anche perché ha un accento grottesco, tanto popolare nell’immaginario occidentale sulla Russia.
Ebbene, è venuto fuori che il Gruppo Wagner nella Repubblica Centrafricana gestisce un birrificio e una distilleria, grazie ai quali guadagna una fortuna, dal momento che ha praticamente monopolizzato il settore degli alcolici ad alta gradazione in quel paese. Si moltiplicano i commenti che dipingono i wagneriani come i classici russi, buttati in Africa a bere fino allo sfinimento perché non sanno fare altro. Quasi nessuno ha notato, però, che a Bangui, la capitale del paese, è stato inaugurato il Russia House, un centro di cultura russa sponsorizzato dal Cremlino.
Nel frattempo, nel solo 2024, la cosiddetta Rossotrudni?estvo – ossia l’Agenzia Federale per la Comunità degli Stati Indipendenti, i Compatrioti all’Estero e la Cooperazione Umanitaria Internazionale, il corrispettivo russo dello Usaid recentemente smantellato da Trump – ha concluso accordi con il Ciad, la Guinea Equatoriale, la Guinea, la Nigeria, Sierra Leone e la Somalia. In tutti questi paesi verranno aperte, o vi esistono già, nuove strutture sotto il marchio del Russia House.
Da anni circolano leggende sulla presenza militare e mercenaria russa in Africa e sulla sua attività propagandistica. Alcune esagerano enormemente le capacità di Wagner prima, e dell’Africa Corps poi, altre le sminuiscono riducendole a aneddoti di ubriachezza e incompetenza. Intanto, nei paesi del Sahel la Russia sta iniziando a portare avanti un gioco molto avanzato e multidimensionale in cui investe sempre più risorse, non solo militari. Costruisce avamposti, osserva l’evoluzione della situazione politica. Ma, soprattutto, trova nuove fonti di guadagno, perché la Russia di Putin non conduce una politica estera diversa da un’economia di estrazione a dir poco predatoria, chiamata ancora diplomazia solo per abitudine.
D’altro canto, questo in Africa risulta facile, perché in quella regione tutti gli altri giocatori di rilievo si sono ritirati a un ritmo sorprendente.
Il Sahel, che si estende dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso e costituisce una barriera naturale tra il Sahara e i terreni fertili dell’Africa subsahariana, oggi è una vera e propria polveriera. Quattro paesi di quest’area, il Burkina Faso, il Mali, il Niger e il Ciad, sono attualmente governati da dittature militari. In Sudan una brutale guerra civile ha costretto 15 milioni di persone ad abbandonare le proprie case.Questo è solo l’ennesimo episodio di una tragedia senza fine. Non si sa quante vittime abbia provocato questo conflitto di due anni, perché senza la presenza costante dell’Onu e di organizzazioni umanitarie internazionali non c’è modo di fornire nemmeno delle stime. L’Humanitarian Research Lab parla di circa 150 mila persone, come anche il Council on Foreign Relations americano. Le Nazioni Unite alzano il calibro aumentando la cifra a 200 mila, altre organizzazioni menzionano addirittura 300 mila persone. Tutti, però, si consentono un margine di errore sottolineando che da maggio 2023 il numero effettivo di vittime potrebbe essere di gran lunga superiore.
Inoltre, c’è anche il terrorismo che dilaga nella fascia del Sahel. Secondo lo studio del Global Terrorism Index (GTI), esso ha causato nella regione più vittime che in tutto il resto del mondo.
Ed è proprio lì che si trova il leader indiscusso del caos, il Burkina Faso, un paese governato da una dittatura militare e che nel 2022 ha subito due colpi di Stato in appena nove mesi. Sul territorio di questo paese a seminare il panico ci sono i separatisti islamici, dotati di una brutalità letteralmente inimmaginabile. Rapimenti a scopo di riscatto, stupri di massa, mutilazioni: si tratta dei tipici crimini commessi dai jihadisti in questa parte del mondo. Spesso si tratta di uomini molto giovani, praticamente ragazzi, imbottiti di sostanze stupefacenti fin dalla prima infanzia. Separatisti, milizie e terroristi non possono lamentarsi della mancanza di afflusso di reclute, hanno infatti un’ampia scelta: due terzi dell’intera popolazione del Sahel oggi ha meno di 25 anni ed è alla disperata ricerca di un’attività che permetta di riempirsi lo stomaco in un modo o in un altro.
Il Burkina Faso ha raggiunto il vertice del GTI nel 2023 e ci è rimasto, togliendo l’ingloriosa prima posizione all’Iraq e all’Afghanistan, zone che nell’immaginario occidentale sono state associate per decenni al terrorismo dilagante. Si tratta di un paese simbolo in cui si intrecciano tutte le narrazioni principali sul Sahel: instabilità interna, collasso delle strutture statali, terrorismo, ritiro delle forze europee e crescente presenza, non necessariamente militare, della Russia.
Bisogna aggiungere una piccola nota: sebbene la Russia sia sempre più influente in Africa, vi agisce come un parassita. Si tratta del motivo piuttosto banale per cui tutte le pompose storie sulla nostalgia verso la zona d’influenza risalente alla guerra fredda e sul ritorno alla spartizione del mondo tra americani e sovietici possono essere gettate immediatamente nella spazzatura.
Anche i cinesi si attribuiscono il ruolo di benefattori, e sebbene anche loro rendano gli africani dipendenti e guadagnino una fortuna rilevando preziosi depositi minerali e fornendo prestiti per investimenti realizzati dalle proprie aziende con i propri dipendenti cinesi, per lo meno si lasciano dietro qualcosa come eredità: reti cellulari, nuove strade, aeroporti, porti, impianti di assemblaggio, nonché poliziotti, funzionari e soldati addestrati dagli specialisti cinesi.
Mosca, invece, non manda nel Sahel i propri mercenari, istruttori militari o diplomatici per costruirvisi una rete di alleati. L’unico intento di Putin e Sergej Lavrov, il cinico intellettuale che da quattro decenni rappresenta la Russia nel mondo, è quello di mettere le mani su tutto ciò che si trova sotto la superficie del suolo africano il prima possibile. E poi, vendere tutto ai cinesi.
(reuters)
Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar. Tutti contro tutti
Tuttavia, per poter rovistare sottoterra in relativa tranquillità, bisogna prima sgomberare il campo. È per questo che Mosca ha iniziato innanzitutto ad inviare i wagneriani in Africa, dapprima esclusivamente come istruttori per le forze armate locali, ma poi già come unità regolari che prendono parte alle operazioni militari. In seguito ha avuto inizio un’offensiva logistica su due fronti, portata avanti allo stesso tempo secondo i principi della soft power e della hard power.
"I russi stanno cercando di costruire in Africa un intero sistema di basi militari per creare l’illusione di detenere il potere in tutta la regione, non solo in un un singolo paese. Queste basi non devono affatto essere grandi o particolarmente ben preparate, l’importante è che ce ne siano molte e in luoghi diversi. Così si crea l’illusione che la Russia sia un valido rivale degli Stati Uniti proprio perché non c’è nessun altro a costruire basi militari nel Sahel. I cinesi non ne hanno nessuna all’estero”, mi spiega Raphael Parens, analista del think tank Foreign Policy Research Institute e residente a Brazzaville, capitale del Congo.
Parens elenca gli avamposti russi: Port Sudan in Sudan, Niamey in Niger, Loubmila in Burkina Faso, Gao in Mali, e inoltre una grande base in costruzione a Maatan al-Sarra in Libia. Aggiunge che non si tratta solo più di competere con gli americani, la cui tattica per quanto riguarda il Sahel negli ultimi mesi è diventata, per usare un eufemismo, ambigua: infatti, da un lato gli uomini di Donald Trump cercano di risolvere i conflitti e firmare accordi di pace, mentre dall’altro si tirano indietro in tutti i progetti di sviluppo, aiuto e democrazia, peggiorando le condizioni di vita locali e aumentando la probabilità di nuove guerre.Ora, a voler posizionare i propri pezzi sulla scacchiera africana c’è un mucchio di altri giocatori, in particolare quelli di medie dimensioni: la Turchia, attivamente coinvolta nel conflitto in Libia, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che hanno i propri interessi nella guerra in Sudan, e il Qatar, che nei circoli diplomatici sempre più spesso viene definito “la nuova Norvegia” per i suoi sforzi volti a costruite processi di pace in diverse parti del mondo. Con tutti questi paesi Putin ha rapporti più o meno cortesi, nonostante la Turchia, quando può, non esiti a lanciare frecciatine ai russi. Per questo oggi il Sahel è un’arena di competizione non bilaterale, ma multilaterale, in cui tutti competono con tutti.
"Mosca vuole assoggettare i paesi dell’Africa centrale anche per aumentare il numero di nazioni che sosterranno la sua agenda sul campo dell’Onu”. Conclude in questo modo Parens, dipingendo davanti a me l’immagine di un paese che cerca di ingannare letteralmente tutti. Il mondo intero, dichiarandogli alla sede delle Nazioni Unite che è Mosca la vera capitale della democrazia, e i propri partner africani, gettandogli fumo negli occhi sostenendo che le “garanzie di sicurezza” offerte siano qualcosa di più rispetto al mero interesse verso l’estrazione delle risorse naturali.
La nuova specialità d’esportazione ucraina
Si tratterebbe di un enigma in fondo piuttosto prevedibile, se non fosse per il fatto che di recente nel Sahel è apparso un nuovo giocatore, decisamente poco ovvio: l’Ucraina. A prima vista sembra assurdo, perché cosa potrebbe guadagnarci su un continente remoto uno Stato danneggiato dall’aggressione russa, che per quanto riguarda le questioni belliche si trova seduto a cavalcioni sulla barricata, e che non è particolarmente in grado di aiutare nessuno nelle attività militari?Tuttavia, gli ucraini dimostrano per l’ennesima volta che l’invasione li ha costretti a pensare molti passi in avanti.
C’è un problema con questa parte del racconto: i miei interlocutori non vogliono firmare con il proprio nome le dichiarazioni su ciò che l’Ucraina starebbe facendo veramente in Africa. Uno di loro, analista presso un prestigioso think tank britannico che pubblica regolarmente su argomenti legati al Sahel, chiede di rimanere anonimo, ma in cambio offre informazioni concrete. Mi spiega che la presenza ucraina è multidimensionale e non sempre è legata alle attività ufficiali dello Stato.
L’esercito ucraino è attualmente quello più esperto al mondo nel combattimento, senza contare quello russo, che pure sta imparando, ma fa sempre più affidamento a mercenari e carne da macello presi in prestito, per esempio, dalla Corea del Nord. I soldati ucraini hanno acquisito un enorme prestigio all’estero, non solo perché da oltre tre anni difendono fermamente la propria patria di fronte a un invasore più forte, ben armato e dotato di grandi risorse.
Vengono apprezzati perché, come osserva Vera Bergengruen di Time, stanno combattendo la prima guerra dell’intelligenza artificiale. Il numero e la varietà di innovazioni tecnologiche introdotte con successo negli ultimi tre anni sono senza precedenti.Tutto ciò, unito al fuoco sul fronte vero e proprio, fa in modo che gli ucraini siano dotati delle caratteristiche più desiderabili in un soldato: sanno cosa funziona e cosa no, il che dà loro un vantaggio sul campo della battaglia pesante tradizionale, nel combattimento urbano e nelle azioni di guerriglia semipartigiana; sanno cavarsela in diversi terreni e condizioni atmosferiche; non aderiscono rigidamente a una dottrina bellica; sono capaci di improvvisare e operare sotto pressione anche quando le tattiche classiche e le conoscenze acquisite durante le tipiche esercitazioni, manovre e scuole militari non sono adatte alle nuove realtà.
Non c’è da stupirsi, quindi, che sia Kiev che i singoli veterani stiano iniziando a ottenere offerte commerciali da ogni angolo del mondo.
Da mesi si parla sempre più spesso della presenza di mercenari ucraini in Ruanda, che si trova in conflitto con la Repubblica Democratica del Congo. Di sicuro c’è stata la Romania, ma alcuni titoli di rilievo, tra cui il Wall Street Journal, hanno riportato la presenza di reclute ucraine.
Il costante aumento della privatizzazione, dopotutto, costituisce un’altra delle caratteristiche degli odierni conflitti interstatali. Fino a poco tempo fa, la partecipazione alle guerre era quasi esclusivamente di competenza degli Stati nazionali o di forze internazionali composte da soldati degli eserciti nazionali. Certamente, nelle guerre civili in Africa o in Medio Oriente sono emersi diversi gruppi di milizie o guerriglieri, ma anch’essi si sono autodefiniti “eserciti”, assumendosi il ruolo, spesso, di unica emanazione armata delle varie entità parastatali: regioni separatiste, gruppi etnici, fazioni religiose.
Oggi le classiche guerre sono sempre più spesso combattute da mercenari sotto contratto, che spesso non vengono nemmeno inclusi nelle strutture militari regolari e non sempre sono soggetti alla struttura di comando ufficiale.Allo stesso modo, in Ucraina, dalla parte di Kiev, combattono sempre più numerosi i colombiani, che vogliono imparare il più possibile sull’uso dei droni sul campo di battaglia, allo scopo di trasmettere queste conoscenze ai cartelli e sfruttarle, per esempio, nell’ambito del traffico di droga lungo il confine tra Stati Uniti e Messico. Dalla parte di Mosca, invece, oltre alle truppe regolari della Corea del Nord, è possibile trovare mercenari provenienti da Cuba, dalle Filippine, dal Nepal, dal Pakistan e persino dalla Cina.
A combattere in Ruanda ci sono stati i romeni, probabilmente gli ucraini, ma non sono mancati gli americani. Come inviato speciale della Casa Bianca, Trump ha nominato Eric Prince che, guarda caso, è il fondatore del famoso gruppo mercenario Blackwater, in precedenza ingaggiato del resto dal Pentagono per limitare le perdite dei “nostri ragazzi”, ossia dell’esercito regolare, in Iraq.
È così che si presenta la guerra oggi, ed è importante che questa osservazione penetri anche nella coscienza degli europei.
Putin ha spostato in Africa la guerra per le terre rare
“Gli ucraini sono stati sicuramente in Sudan, ma piuttosto verso l’inizio del conflitto. Nel 2023, forse anche un po’ nel 2024. Per lo più mercenari, anche se per molti la motivazione non era il denaro, ma la voglia di scacciare i russi che combattevano in quel paese, soprattutto sotto la bandiera dell’Africa Corps. Oggi, probabilmente, non ci sono più”, mi dice un analista che ha chiesto di rimanere anonimo. Ma subito aggiunge che gli ucraini si sono trasferiti in Mali, dove combattono tra le file delle milizie separatiste dei Tuareg. Nessuno dei miei interlocutori è stato in grado di dire con piena certezza se si tratti di singoli volontari o di militari inviati più o meno ufficialmente da Kiev, ma ovviamente le due cose non si escludono necessariamente a vicenda. Quel che conta è che dall’altro lato della barricata ci siano di nuovo i russi.
Le forze armate del Mali da anni cercano di combattere il separatismo dei Tuareg, e ad aiutarle c’è l’Africa Corps, il figlio postumo del Gruppo Wagner. In teoria, come spiegano Filip Bryjka e J?drzej Czerep dell’Istituto Polacco degli Affari Internazionali, in base all’accordo di Algeri del 2015 ai separatisti dovrebbe essere garantita una parziale autonomia e la partecipazione al funzionamento dell’amministrazione statale, ma la pratica è decisamente incoerente con la teoria, specialmente da quando le forze dell’Onu e la missione di stabilizzazione francese sono state espulse. I combattimenti nel nord del Mali tra l’esercito sostenuto dai russi e i Tuareg sono sempre più frequenti, e gli ucraini sono sempre più disposti a sostenere questi ultimi.
Ma c’è un altro aspetto di questa presenza in Africa, a parlarmene è un alto funzionario dell’intelligence militare dell’Ucraina."Il presidente Zelensky vorrebbe molto che l’Ucraina fosse presente, visibile e coinvolta in Africa in misura molto maggiore di quanto non lo sia ora. Il problema è che non abbiamo risorse”.”Militari? Non c’è da stupirsi, dopotutto siete in guerra per il futuro del vostro paese”.”No, diplomatiche”, mi corregge. “Vedi, i russi mandano in Africa i propri uomini migliori. Veramente dotati, capaci. Le loro ambasciate nei paesi africani funzionano benissimo, mentre noi non disponiamo di un personale del genere. Possiamo rovistare negli angoli più reconditi dell’amministrazione senza, però, riuscire a cavare un ragno dal buco”.
Sono due le ragioni di questi desideri di Zelensky, spiega il mio interlocutore. In primo luogo, si tratta di rafforzare il soft power ucraino, ossia di fare quello che i russi hanno fatto per anni. Ottenere più sostenitori alle Nazioni Unite e una maggiore diffusione della linea narrativa ucraina sulla guerra in altre parti del mondo. Ma c’è un altro motivo, ben più importante, che dimostra in maniera univoca che l’Ucraina sta iniziando a giocare a un livello superiore rispetto alla maggior parte dei paesi europei."n giorno, questa guerra finirà, relativamente presto”, dice l’ufficiale dell’intelligence. “Non quest’anno, ma nel 2026 sì. Centinaia di migliaia di russi torneranno a casa e Putin sarà costretto a gestirli subito in qualche modo. Non può permettere a quegli individui degenerati, che hanno stuprato e vandalizzato l’Ucraina, di muoversi liberamente per il suo paese. Ma allo stesso tempo sarà troppo presto per colpire la Nato. Quindi comincerà a mandarli in altre parti del mondo, come l’Africa. Ecco perché l’Ucraina sta rafforzando la propria presenza lì: vogliamo trasmettere conoscenza ed esperienza a coloro che non vogliono Putin in Africa”.
Cosa ti fa pensare che arriveranno proprio lì? “Perché oggi per la Russia la guerra è un modo per guadagnare denaro, e lì è possibile guadagnare in maniera piuttosto facile. Oro, argento, diamanti, petrolio… è tutto in attesa di essere esportato. È solo per questo che i russi avevano una base a Port Sudan sul Mar Rosso. Da’ un’occhiata alla mappa, il Sahel è una fascia stretta ma lunga che va dall’Atlantico fino alle coste orientali del continente. Se ne prendi il controllo, puoi caricare la merce sulle navi a Port Sudan e spedirle oltre. Ossia in Cina”.
Le autorità ucraine sanno che l’economia russa si trova con un piede nella fossa, nonostante la crescita e la produzione industriale siano alimentate dalle commissioni per l’esercito. La sola ragione per cui Mosca non vacilla sono le trasfusioni cinesi, che da tempo si sono trasformate in una sorta di cordone ombelicale che crea dipendenza. Allo stesso tempo, la fuga della manodopera, l’emigrazione della classe media di talento e l’orientamento unidirezionale dell’economia hanno fatto sì che le sue altre branche siano rimaste a terra. Se anche la guerra in Ucraina finisse all’improvviso, i russi non ritornerebbero presto alla produzione di auto, asciugatrici e mobili.Per rimanere in piedi devono continuare a saccheggiare. Per loro sarebbe più conveniente farlo nel Donbass, dato che si trova relativamente vicino e le loro truppe sono già sul posto. Ecco perché Putin nei suoi colloqui con Trump insiste affinché proprio quella regione gli venga consegnata immediatamente e nella sua interezza.L’unico problema è che Zelensky non rinuncerà al Donbass. E se anche lo facesse sulla carta, in Ucraina c’è un numero sufficiente di nazionalisti da trasformare la vita in quel luogo, o meglio, lo sfruttamento delle risorse naturali da parte dei russi, in un vero e proprio inferno.Putin lo sa, per tanto le terre rare e altre materie prime va a cercarsele altrove. È toccato al Sahel, dove i russi se la stanno passando piuttosto bene da ormai qualche tempo. Ma gli ucraini stanno cercando di isolarli anche da quella fonte di guadagno, da qui le loro missioni di intelligence, la lotta tra le file dei Tuareg e tutta una serie di altre operazioni che, per un osservatore esterno, non hanno alcun senso se non quello di puro avventurismo o tragicomiche ambizioni.
Il Sahel è già di per sé una polveriera. E ora si sta trasformando in un fronte alternativo nella guerra della Russia contro l’Ucraina. O meglio, in questo caso, dell’Ucraina contro la Russia. Per l’Ucraina si tratta di una posizione piuttosto comoda. In casa combattono principalmente sulla difensiva, hanno difficoltà a sferrare un colpo decisivo ai russi senza rischiare l’escalation, che provocherebbe danni ancora maggiori nel loro paese e l’inquietudine dell’America.
È questo il motivo per cui stanno cercando di punzecchiare le forze russe in altre parti del mondo, o anche direttamente gli alleati dei russi, come sta avendo luogo in Sahel, proprio perché i russi non sono disposti a reagire con un’escalation per attacchi del genere. Inoltre, la mancanza di una qualsiasi missione ufficiale o di soldati regolari in uniforme significa che non ci sono prove. Kiev può negare tutto, se necessario.E negare potrebbe rivelarsi necessario, perché il Sahel è un terreno difficile, e a volte costringe a fare accordi con alleati piuttosto scomodi.Come, ad esempio, nel Nord del Mali, dove ai Tuareg, probabilmente con il supporto degli operatori ucraini di droni, capita di combattere fianco a fianco con i militanti del gruppo Jama’at Nasr al-Islam wal-Muslimin, o JNIM. Si tratta di un organizzazione terroristica islamica che si autodefinisce l’ala di al-Qaeda in Africa occidentale, con divisioni in Burkina Faso e Niger. In teoria, dunque, potrebbe venire fuori che in Africa l’Ucraina stia supportando i terroristi islamici, il che costituirebbe un’enorme macchia per l’immagine del paese. Pertanto, sarebbe meglio non ammettere che si stia facendo qualcosa di diverso dal mero lobbismo diplomatico volto a ottenere risultati migliori sull’arena dell’Onu.
Le materie prime sono più importanti di Al Qaeda. Trump in Africa
L’elemento più bizzarro di questo puzzle è sempre più spesso costituito dal ruolo di una potenza che per decenni ha avuto obiettivi molto ben definiti in Africa. Tuttavia, non è del tutto chiaro cosa vorrebbero ottenere adesso gli americani nel Sahel. E vengo presto a sapere che non si tratta di un argomento facile da affrontare nel momento in cui quasi tutti i potenziali interlocutori tengono la bocca cucita.
Quattro ex diplomatici del Dipartimento di Stato, tra cui un ex ambasciatore in un grande paese africano, hanno risposto in maniera eufemistica che la diplomazia americana, ormai, è gestita in maniera troppo caotica per tentare di individuarvi una strategia particolarmente ponderata. Gli analisti di Washington si sono del tutto rifiutati di rilasciare dichiarazioni, nonostante in passato mi avessero parlato diverse volte anche dell’attuale amministrazione Trump.
Alla fine riesco a convincere uno degli esperti a parlare, ma anche lui lo fa a condizione di rimanere anonimo."A mio avviso, per le autorità attuali l’Africa non è particolarmente importante. Ciò non è necessariamente visibile nel fatto che la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato agiscano o meno in un modo o nell’altro, ti dirà molto di più ciò che accade nei ministeri e nelle istituzioni di potere: al Pentagono, nella Homeland Security e nella NSC, ossia il Consiglio Nazionale per la Sicurezza”, mi rivela.”Lì vengono drasticamente ridotti i posti di lavoro nelle unità che si occupano della lotta al terrorismo internazionale. Combattere gruppi come Al Qaeda non è più la loro priorità. L’unica cosa che potenzialmente potrebbe interessare a Trump, è strappare il massimo dei benefici materiali dal Sahel, dando in cambio il minimo possibile. Qualche modesta garanzia di sicurezza, un po’ di sostegno alle dittature militari, forse qualche piccolo investimento. Niente di più. Lo smantellamento dell’intera Usaid fa parte di questo piano.
In tutto ciò, è facile perdere di vista il fatto che stiamo parlando di una regione abitata da 340 milioni di persone.
Se dovessero continuare a fuggire dalla guerra, dal terrorismo, dal cambiamento climatico, dalla fame, prima o poi si dirigeranno verso l’Europa, provocando una crisi di gran lunga superiore a quella del 2015.
Ma la Russia, gli Stati Uniti e, indirettamente, la Cina non intendono preoccuparsi del fatto che le loro azioni aumenteranno la pressione migratoria sull’Unione Europea, ormai quasi del tutto assente in Africa. 140 anni dopo la Conferenza di Berlino, in cui le potenze europee del tempo si spartirono l’Africa, sta avendo luogo una nuova colonizzazione del continente, con l’unica differenza che l’Europa non ne trarrà alcun beneficio. Invece, potrebbe diventarne la vittima.