la Repubblica, 8 novembre 2025
Guarda Van Gogh, ti farà l’effetto di una medicina
L’arte fa bene. Che sia anche una cura, o almeno una terapia, perché calma lo spirito, lo sanno i pazienti degli ospedali, dei reparti pediatrici, oncologici, psichiatrici, cui già dalla fine dell’Ottocento sono state offerte matite, pastelli, acquarelli e tele, perché attraverso l’espressione artistica (il gesto di disegnare o dipingere, liberare il colore, manipolare la materia) potessero trovare sollievo ai loro mali – temporaneo, ma non effimero e anzi, talvolta, perfino duraturo.
Nelle carceri, nei campi di concentramento, nei gulag, a ogni latitudine, nell’isolamento, nella disperazione e pure a un passo dalla morte, gli internati hanno dipinto col sangue sui muri delle celle, e inciso con le unghie o con le lime, volti, animali e navi sull’intonaco; hanno scolpito o modellato molliche di pane, scopini del cesso, tappi di bottiglia, filo spinato, fango. Adesso uno studio scientifico finanziato dall’Art Fund dimostra che reca beneficio non solo praticare l’arte, a ogni livello, bensì contemplarla. Non nel senso, ormai comunemente accettato, che la bellezza eleva e consola mentre la bruttezza induce al degrado (anche morale), e che la fruizione estetica giova all’anima. Del resto, tralasciando i rischi della sindrome di Stendhal, per molto tempo si è ritenuto il contrario: ancora nel Novecento alle isteriche si raccomandava di non visitare una mostra di Giorgia O’Keeffe, per non ricevere stimoli sessuali, e l’esposizione dei nudi dei musei turba ancora quanti alla cultura occidentale si sentono estranei. I ricercatori del Kings College di Londra hanno provato invece a dimostrare che guardare un quadro può essere una medicina, efficace quanto inghiottire delle gocce, o una pillola.
Hanno selezionato due gruppi di volontari, e hanno chiesto loro di osservare alcune opere – le originali alla Courtauld Gallery, le riproduzioni all’istituto. Mentre guardavano, orologi digitali registravano il battito del cuore e la temperatura corporea. L’analisi della saliva ha rivelato che i livelli di ormoni dello stress (cortisolo e citochine) scendevano del 22 per cento nel primo caso, dell’8 per cento nel secondo. Insomma, l’arte attiva e influenza il sistema nervoso ed endocrino. Il risultato è tanto più sorprendente se ci si sofferma sui quadri che hanno prodotto tale effetto. Ci si aspetterebbe opere classiche, equilibrate e armoniose – madonne con bambino, angeli musicanti, un dolce paesaggio veneto o di Lorrain; invece si tratta di arte moderna. Ritenuta antiestetica, “brutta”, e osteggiata o perfino derisa quando fu dipinta.
Il Te Rerioa (Il sogno) di Gauguin trasmette al visitatore di oggi la stessa vaghezza di un Raffaello o di Bellini. Due giovani polinesiane sono accovacciate sul pavimento di una capanna (che è anche lo studio del pittore a Tahiti). Una di spalle, l’altra osserva pensosa un bimbo (una bimba?) che dorme, in primo piano. Non è chiaro chi stia sognando cosa, ma la quieta sospensione del tempo delle figure è la stessa di chi guarda. Questo quadro è una specie di messa in abisso della condizione dello spettatore. Sono ottocenteschi anche gli altri quadri dell’esperimento. Il Bar delle Folies-Bergère di Édouard Manet, dipinto nel 1881-82, sua ultima grande opera, mostra una ragazza (la cameriera) dietro il bancone, fra bottiglie di champagne e di assenzio, e un vaso di mandarini. Lo specchio alle sue spalle riflette, oltre la sua schiena, l’immagine della folla nel locale. Le mani posate sul ripiano, anche lei ci guarda, e sembra pronta a servirci. Non è allegra, anzi provata, forse a fine turno. Una scena di vita moderna, che parla di lavoro, più che di divertimento, eppure… Saranno l’arancione squillante dei mandarini nel vaso di vetro, la trasparenza dei merletti dell’abito, il verde acido della Fata Verde nell’ampolla a ridurre gli ormoni dello stress? L’altro quadro è poi l’Autoritratto con benda sull’orecchio di Vincent Van Gogh. Un’opera drammatica perché l’artista si immortala dopo la crisi psichica e l’automutilazione che lo ha condotto in ospedale (e poi in manicomio). Lo sguardo allucinato, l’espressione guardinga, ci coinvolgono nel suo dolore. Il quadro è questo: un uomo come noi, nel suo calvario. Ma Van Gogh è un pittore e la sofferenza cui non possiamo dare un nome la trasforma. Le pennellate, le strisce verticali, i colori sgargianti, hanno di per sé un effetto quasi catartico. La scienza constata e insegna, ma non spiega tutto.
Se non è il soggetto di per sé, che a volte ci resta indecifrabile, cos’è dunque che davvero ci emoziona quando guardiamo un quadro? Il fatto stesso che sia un’opera d’arte – riconosciuta come tale dalla comunità cui apparteniamo? Sapere che ci stiamo regalando un privilegio: un momento di pausa dalle tensioni della nostra vita? Il silenzio ovattato dei musei è esso stesso parte della medicina? Oppure lo è dialogare con qualcuno ormai scomparso, distante, perduto, e la meraviglia del fatto che lo sentiamo presente? O ancora, l’architettura musicale dei colori? Le forme sulla tela – riconoscibili, verosimili?
Non so se l’esperimento prevedesse anche quadri non figurativi o astratti. Sospetto che Kandinskij, Mondrian, Rothko abbassino ulteriormente i livelli di cortisolo. Mi viene anche da pensare che c’entri la forma stessa del quadro, fin dai tempi di Alberti definito una finestra sul mondo. Ecco, l’arte – qualunque sia, di qualsiasi materia sia fatta – è quella finestra. Ci consente di affacciarci su noi stessi – ma anche sull’ignoto. La superficie di un quadro è dura come il ghiaccio o la crosta terrestre ma, come quelle, mobile. Può essere riflettente, come l’acqua. Pure l’acqua ha effetti terapeutici: conoscerete la thalassoterapia. Forse la semplice verità che somministrare l’arte e respirarla attraverso gli occhi fa star meglio, o addirittura bene, spiega perché abbiamo bisogno di averla intorno a noi, perché abbiamo inciso e dipinto nelle grotte e sulle rocce fin da quando possiamo definirci esseri umani; e perché, nonostante sia stata considerata finita nel XX secolo, o addirittura morta nel secolo nostro, non possiamo ancora farne a meno.