Corriere della Sera, 9 novembre 2025
«Da ragazzo lavorò in Ferrari, ma il Commendatore lo licenziò. Le prime figurine furono un flop. La sua preferita? Quella di Rivera»
Giuseppe Panini fa cent’anni, ma il suo cognome è già eterno. Il padre delle figurine (oltre che di Tiziana, che non c’è più, di Annamaria, di Francesco e di Antonio, tutti impegnati oggi nel settore immobiliare), è l’uomo che ha trasformato dei semplici rettangolini colorati destinati al macero in un business da 2,3 miliardi di fatturato e nel sogno di generazioni di bambini. A dargli il volto nella fiction Rai che si sta girando a Modena è Simone Liberati, mentre nonna Olga, cuore della famiglia, sarà Serena Rossi. Ma i Panini sono unici. E non hanno doppie.
Antonio, che uomo era suo padre Giuseppe?
«Era curioso, innamorato della vita, con tanti interessi: l’enigmistica, la fisarmonica, la pallavolo. Per la Panini Modena di volley, a metà anni ’80, decise di ingaggiare un giovane allenatore sconosciuto: si chiamava Julio Velasco. Vedeva lontano e per me è stato un faro».
Un padre presente in tutto.
«Organizzò anche le mie nozze, tutto tranne l’abito della sposa. Oggi lo chiamerebbero wedding planner».
C’è un luogo che le fa sentire vicino papà?
«Il palazzo dello sport di Modena che porta il suo nome. Noi fratelli lo chiamiamo il PalaPapà».
Lei si chiama Antonio come il nonno paterno.
«Aveva combattuto da aviatore durante la Grande Guerra, affascinato dal mito di Baracca, nella vita costruiva scaldacqua per gli abbeveratoi degli animali. Papà aveva 16 anni quando morì, aveva appena cominciato a lavorare: gli pagò il funerale con il primo stipendio. Prima di andarsene nonno gli aveva detto: ora il capofamiglia sei tu».
Fortuna che c’era nonna Olga.
«È stata il motore della famiglia. Era la figlia del casaro del paese e all’epoca, lei che aveva fatto la sesta elementare, era una delle poche bambine ad aver studiato. Vedova a 41 anni con otto figli, riuscì a non mandarne nessuno in orfanotrofio, come accadeva in quegli anni di miseria».
Voi Panini siete tantissimi, una Dinasty italiana.
«Papà faceva parte di una famiglia umile, 4 fratelli e 4 sorelle, Mussolini li premiò per la prole numerosa. Noi oggi siamo 4 fratelli e 28 cugini con 49 figli che a loro volta hanno messo al mondo due dozzine di bimbi».
Come riuscì nonna Olga a cambiare la storia di famiglia?
«Una delle figlie, zia Veronica, le disse che a Modena c’era un’edicola vicino al Duomo in vendita. La comprarono a rate, una follia in piena guerra. Quando nell’Epifania del ’45 i fratelli più piccoli, Franco e Umberto, 27 anni in due, andarono ad aprirla c’era così tanta neve che non trovavano la porta. Poi arrivò il boom di giornali e fumetti. Le figurine sono nate lì».
Non era un tipo facile la nonna…
«Un giorno un gruppuscolo di comunisti la avvisa: veniamo a sequestrare tutte le copie del Candido di Guareschi per bruciarle. Nonna li affronta a muso duro: ho otto figli da sfamare, dice, quindi prima pagate i giornali e poi fate quello che volete. Se ne andarono e non tornarono più».
A 20 anni suo padre vide la morte in faccia.
«Rimase vittima di una tubercolosi ossea, lo salvò una terapia sperimentale considerata folle per quei tempi: un trapianto di midollo da un vitello. Lo operarono tre volte innestandogli un osso animale nella colonna vertebrale, trenta centimetri di schiena che non riuscì più a piegare. Tentarono l’operazione con tre pazienti, mio padre fu l’unico a sopravvivere».
Immagino la felicità di sua mamma…
«Allora era la sua fidanzata, quando papà aprì gli occhi scoppiò a piangere. Lui la guardò e le chiese: Maddalena, quanto ha fatto l’Ungheria? Era la Nazionale di calcio più forte degli anni Cinquanta, mamma che non sapeva nulla di pallone, sparò a caso e indovinò: tranquillo, Giuseppe, l’Ungheria ha vinto…».
È vero che la conobbe offrendole una caramella in pullman?
«Si incontrarono sulla corriera per Cortina, lui andava a curarsi in un sanatorio, lei a fare la parrucchiera. Papà portava il busto di gesso, a lei fece tenerezza. Quando si sposarono era incinta di tre mesi».
Aveva lavorato in Ferrari.
«Assunto come meccanico. Non era il suo mestiere. Ferrari se ne accorse e lo licenziò».
Ha licenziato suo padre?
«In tronco. Papà era un ragazzetto, il suo compito era fare vento con una paletta per tenere viva la brace di una fornace. Siccome si annoiava prese un bidone vuoto e ci si sedette sopra, tanto per fare aria con un ventaglio stare in piedi o seduti era uguale. Passò di lì Ferrari, chiamò il capofficina, gli sussurrò due cose e andò via. A fine turno il capofficina chiamò mio padre e gli disse: ha detto il Commendatore che domani se non vieni è meglio, lui non vuole gente che lavori seduta».
Beh, alla fine meglio così.
«Si ritrovarono anni dopo e papà disse a Ferrari: l’affare lo abbiamo fatto in due, lei si è disfatto di un operaio svogliato e io sono diventato Panini».
L’avventura delle figurine però non cominciò benissimo.
«Papà aveva lanciato con successo l’idea delle buste, due libri gialli a 100 lire per rimettere in circolo i resi, e nel 1956 convinse la famiglia a investire su un album di figurine di piante e fiori. Fu un flop spaventoso. Ma pur avendo indebitato la famiglia continuava a dire: la formula è giusta è il soggetto che non va bene. Aveva carisma e aveva ragione».
La svolta a Milano nei primi anni Sessanta.
«Papà seppe di questa casa editrice milanese che stava per mandare al macero figurine invendute. Pensò: perché non le produco io? Fu un botto. Lui e i fratelli decisero di diventare editori. Se mettiamo insieme oggi tutte le figurine stampate copriamo tre volte il tragitto Terra-Luna».
Hanno scritto: i fratelli Panini sono stati i nostri Disney: hanno lavorato per farci felici. Che tipi erano?
«Franco era il fratello colto della famiglia, l’unico che si è diplomato ragioniere. Si unì al gruppo per gestirne i conti, è lui che ha internazionalizzato la Panini. Benito, che rischiò di morire sotto le bombe mentre portava i giornali in edicola, era un grande lavoratore, cultore della numismatica, l’idea di puntare sul collezionismo fu sua. Umberto aveva fatto soldi a palate in Venezuela come meccanico, ma papà lo convinse a tornare in Italia: “Con le figurine la vera America è qui”. La Panini usa ancora le macchine che ha inventato lui».
Figurine stampate in 50 Paesi, poi cartoni animati, fiabe, scienze, geografia, cantanti, sceneggiati tv. Ma c’era una figurina che suo padre amava più di altre?
«Quella di Gianni Rivera. Da ragazzo andava in villeggiatura con i genitori nello stesso hotel dove facevamo vacanza noi, la Pensione Luisiana a Forte dei Marmi. Mia mamma e la sua legarono tanto. Una volta si fermò a dormire dalla signora Edera e disse: con tutte le ragazze giovani che vorrebbero conoscere Gianni hanno messo me a dormire nella sua stanza…».
Cosa fu per i fratelli cedere l’azienda nel 1988?
«Dispiacque a tutti ma sentivano che l’avventura era finita. Erano convinti che averla venduta a un editore di fama internazionale come Robert Maxwell fosse una garanzia. Invece l’azienda rischiò di chiudere».
Immagino che lei fosse un bambino molto invidiato.
«Ero il figlio delle figurine, finivo l’album prima di cominciarlo. A scuola ero popolarissimo: avevo sempre le figurine in tasca, le scambiavo, ci giocavo, ma poi le lasciavo ai miei compagni. E procuravo a tutti le figurine che mancavano per finire l’album».
Un ricordo che la intenerisce.
«Papà amava le feste di famiglia e ritrovarsi con gli amici. Così quando capitava l’occasione mi diceva: Antonio, vai in auto a prendere la fisarmonica a papà. Trasmetteva felicità».
Cosa gli direbbe se potesse riaverlo qui?
«Per prima cosa gli farei conoscere i pronipoti. E poi gli chiederei: che dici se facciamo un salto al Palapapà?».