Corriere della Sera, 8 novembre 2025
Quando l’AI sbarca a Sanremo
«È sommo onor per me». L’espressione di Gianluca Gazzoli al cospetto di «re» Carlo Conti è indecifrabile, vacua. Ma non è il dubbio se accettare o meno l’investitura a condurre Sanremo Giovani, è la ricostruzione del volto con l’intelligenza artificiale a renderlo inespressivo. Anche la Rai si è aggiunta alla schiera di chi sale sul carro della Ai generativa per creare spot pubblicitari. Le reazioni del pubblico? Pessime, non tanto per la scelta in sé quanto per la bassa qualità messa in campo: «cringe», l’aggettivo inglese che nel gergo ha sostituito «imbarazzante», è il giudizio più ricorrente.
Lo stesso aggettivo, insieme a «souless», è quello che spesso accompagna i giudizi per lo spot natalizio di Coca Cola: qui l’uso della Ai è massivo, e di qualità. L’accusa qui è di creare l’effetto «Uncanny valley», un verosimile che rispecchia la realtà senza però catturarne l’essenza e che di fatto crea una sensazione respingente, di una comunicazione «senz’anima». Ma allora perché molte aziende hanno deciso di affidarsi all’intelligenza artificiale per comunicare? La spiegazione più verosimile l’ha fornita Robert Wong, a capo dei Creative Labs di Google: «È molto di moda, se fai uno spot con la Ai puoi dire al tuo capo: hai visto come sono bravo?». Anche Google stessa si è concessa alla moda del momento, con la consapevolezza di chi conosce a fondo il mezzo: nello spot che promuove l’utilizzo di Ai Mode il protagonista della pubblicità è Tom, un tacchino di pezza del tutto fumettoso che non crea distacco, e anzi risulta piuttosto simpatico (dato anche che – grazie alla facilità d’uso della Ai – progetta una fuga salvifica dal pranzo del Giorno del Ringraziamento). Anche qui però l’accoglienza non è stata tenera, e le motivazioni sono piuttosto interessanti. Esattamente come era successo qualche mese fa per il lancio (negli Usa) di Apple Intelligence, le big tech che vogliono spingerci a valutare l’utilizzo della Ai per le nostre attività quotidiane mettono al centro dei loro spot un tipo di utente ben definito. Che si tratti di una persona, nel caso di Apple era Warren «lo scansafatiche» (un impiegato che passa la giornata in ufficio facendo collane con le graffette), o di un cartone animato, l’umano che si approccia alla Ai ha sempre una caratteristica ben definita: è un imbecille, ben felice di fare una delega cognitiva totale alla macchina. Ma è davvero questa la futura convivenza con l’intelligenza artificiale che ci vogliamo immaginare?