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 2025  novembre 06 Giovedì calendario

Rimasti due volte: la straordinaria storia degli Zancola, italiani passati per 4 Stati ma rimasti sempre nello stesso paese

«I miei genitori sono nati nell’Impero Austroungarico, io in Italia, i miei figli in Jugoslavia e i miei nipoti in Slovenia: eppure abitiamo sempre a Portorose e siamo istriani».
Con queste parole di Maria Zancola, 90enne nata e cresciuta in questo paesino dell’Istria, si concludeva l’ultimo capitolo del mio libro «Le foibe spiegate ai ragazzi», edito da Piemme e uscito nel febbraio scorso, in occasione del Giorno del ricordo. Con le stesse parole, ma scritte in inglese, si apre un lungo pezzo pubblicato dal New York Times nelle scorse settimane e dedicato alla casa di Maria che, pur restando sempre nello stesso posto, in un secolo ha fatto parte di quattro diversi Paesi. Una situazione comune a tutte le case della Venezia Giulia ma non a tutte le famiglie: la stragrande maggioranza degli italiani che vivevano in Istria e Dalmazia, territori che dopo la fine della Seconda guerra mondiale vennero assegnati alla Jugoslavia, decisero di lasciare proprietà e terreni e venire in Italia. Gli esuli che scelsero questa soluzione furono circa 350 mila, la stragrande maggioranza degli italiani che vivevano in quelle zone (vedi l’intervista allo storico Gianni Oliva sulla Rassegna di venerdì scorso, in occasione dell’inaugurazione della Medif – Mostra Esuli Dalmati, Istriani e Fiumani, al Vittoriano). Ma non tutti: alcuni decisero di restare dov’erano. La famiglia Zancola è fra questi.
Ho conosciuto Maria grazie ad Alex, suo nipote. La sua è stata l’ultima storia a venire inserita nel mio libro: volevo raccontare l’esperienza dei «rimasti» ma non riuscivo a trovare la famiglia adatta. Avevo scartato i rimasti per convinzione politica e quelli obbligati a restare perché a loro, magari per via del cognome slavo, non era stata offerta la possibilità di andarsene. Volevo invece ascoltare la storia di quelli che non avevano avuto il cuore di lasciare tutto ciò che avevano per ricominciare altrove, spesso da zero. Dopo un lungo passaparola e tante telefonate ero finalmente arrivata ad Alex: 30 anni, di famiglia italiana ma nato e cresciuto in Slovenia, poteva mettermi in contatto con una donna che sembrava fare al caso mio. Era la signora Maria, sua nonna. E la storia che mi ha raccontato, e che in parte trovate anche sul New York Times, è emblematica di come nella Venezia Giulia la Storia ha ridisegnato i confini ma non le identità.
Dall’Impero austroungarico all’Italia, e poi alla Jugoslavia
Maria nasce nel 1935 a Portorose, un paese sulla costa adriatica, nel nord dell’Istria. È italiana. Per identità e cultura: sua mamma Angela, pur essendo nata nello stesso paese ma nel 1912, quando Portorose era nell’Impero austroungarico, fa parte di una famiglia italiana. Ma anche per nascita: Portorose, dalla fine della Prima guerra mondiale, è entrato a far parte del Regno d’Italia. Quest’ultima cosa cambierà presto, e diverse volte. Dopo l’8 settembre 1943 Portorose finisce nella Zona d’operazioni del Litorale adriatico ed annessa de facto alla Germania nazista; dopo la fine della guerra e il Trattato di Parigi del 1947 è assegnato alla zona B del Territorio libero di Trieste, amministrato dagli jugoslavi; infine con il Memorandum d’Intesa di Londra, nel 1954, diventa Jugoslavia. Agli italiani viene offerta la possibilità di andarsene ma Angela e suo marito decidono di restare, malgrado il rischio di ripercussioni e la paura delle foibe. Maria ricorda il papà che ripeteva ostinato: «Perché dovrei andare a zappare le terre degli altri? Preferisco zappare la mia». 
Gli Zancola si fanno coraggio: Portorose è un centro turistico e a nessuno conviene che per le vie si respiri un clima di terrore. Per Maria, però, accettare la scelta dei genitori non è facile. A scuola la sua classe si svuota, giorno dopo giorno tutte le amiche se ne vanno. Così come se ne vanno gli zii e i cugini che vivevano con loro nella casa di famiglia. Dopo la loro partenza questo edificio in muratura, arrampicato sulla collina alle spalle di Portorose (che ora però si chiama Portorož) sembra improvvisamente grande e vuoto. Per Maria e i suoi diventa ben presto un posto dove sentirsi al sicuro: nel quotidiano la vita dei «rimasti» non è poi così facile. Maria è appena adolescente quando, una notte, un drappello di uomini armati bussa violentemente alla porta chiedendo al padre di uscire. Per fortuna, prima che qualcuno nella stanza si azzardi ad aprire, sentono uno di loro ordinare agli altri di fermarsi e di andarsene. Nessuno ha mai saputo chi fosse stato a salvarli, ma le ragioni non sono difficili da immaginare: Maria ha raccontato al NY Times che suo papà era una persona benvoluta, che in paese conosceva tutti e si fermava spesso a giocare a carte all’osteria senza fare distinzioni di nazionalità o fede politica.
Per il resto, la vita prosegue abbastanza simile a prima. Nella cittadina si continua a parlare italiano e, ricorda l’anziana, nei giorni del Festival di Sanremo le vie si riempiono delle canzoni che infiammano l’Ariston.
Per questo, quando è abbastanza grande per decidere, anche lei sceglie di non andarsene. Potrebbe, e probabilmente le converrebbe pure. Di lavoro fa la sarta e suo marito Dario (anche lui parte di una famiglia di «rimasti», i Zigante) fa l’elettricista: in Italia troverebbero di certo buoni impieghi. Ma ormai è passato troppo tempo, si sono abituati alla nuova realtà e non se la sentono di lasciare indietro i genitori anziani. Nel 1975, intanto, Jugoslavia e Italia sottoscrivono il Trattato di Osimo e fissano in modo definitivo i confini. Aldo, Laura e Lorella, i tre figli della coppia, nascono in Jugoslavia. Ma vengono cresciuti da italiani: parlano la lingua dei genitori e vanno alla scuola italiana. Per questo, per strada, a volte vengono insultati. La grande casa di famiglia è, e resta, il loro rifugio. 
È un’epoca di grandi cambiamenti, in cui la guerra è all’orizzonte: muore il maresciallo Tito, la Jugoslavia comincia pian piano a smantellarsi proprio a partire dalla Slovenia, la prima a dichiarare l’indipendenza. Mentre il mondo cambia i figli di Maria crescono, trovano lavoro e, a loro volta, formano nuove famiglie. Aldo, che gestisce bar e campi da tennis, si innamora di una ragazza slovena che, ironia della sorte, non sa una parola d’italiano. Eppure la famiglia la accoglie con gioia. Compresa Angela che, anche se è rimasta a Portorose (o forse, proprio per quello) non accetta il fatto che l’Istria sia finita oltreconfine. Difatti la prima cosa che dice alla futura moglie del nipote è: «Tu con me parlerai solo italiano», e sarà proprio grazie a lei che la mamma di Alex imparerà l’italiano. Lui, dal canto suo, oggi parla sloveno con la mamma, dialetto istriano con il papà, italiano sul lavoro e inglese quando viaggia.
Alex, la quarta generazione di questa famiglia, ha appena compiuto trent’anni e fa l’ingegnere. È nato a Portorose come papà, nonna e bisnonna ma ora si chiama Portorož e si trova appunto in Slovenia, uno dei sette Stati nei quali è stata divisa la Jugoslavia. Gli ho telefonato subito dopo aver letto l’articolo del New York Times e purtroppo non aveva buone notizie: nonna Maria, mi ha raccontato, è mancata da pochi giorni. Non ha fatto in tempo a leggere l’articolo ma, mi ha detto, aveva conservato con cura la copia del mio libro che le avevo fatto avere: ci teneva tanto che la sua storia venisse conosciuta. Non per manie di protagonismo, ma perché simbolo di resilienza, perdono e pace.
Anche la casa di famiglia rappresenta tutto questo. Nei decenni ha subito rimaneggiamenti e ampliamenti, ma ci vivono ancora Aldo e le sue sorelle. Alex no, però. Pur restando molto legato alla sua terra e alle sue usanze (tra i progetti ai quali è più legato c’è il sito «te go preparà», dove raccoglie ricette e storie delle nonne istriane e che ha avviato proprio insieme a Maria) ha appena comprato casa a Trieste. E no, la nostalgia e il sentimento di appartenenza alla cultura italiana non c’entrano. Si tratta di un mero calcolo economico: «Un appartamento di cento metri quadri, a Trieste, può costare un po’ più di 100 mila euro mentre a Portorose arriva anche a 400-500 mila», mi dice. Mi spiega che negli ultimi anni, soprattutto dopo l’entrata di Slovenia e Croazia nell’Ue, spostarsi in Italia conviene. 
Prima di salutarlo mi racconta che ha passato alcuni mesi in Australia per lavoro e mi viene la curiosità di chiedergli come si definisce quando, all’estero, gli chiedono da dove arriva. Italiano o sloveno? Europeo o istriano?, provo a ipotizzare. «Tutte le precedenti, perché non mi sento una sola di queste identità – sorride -. Dico che sono un mix e spiego a grandi linee la mia storia. Ci metto un po’ di più ma credimi, ne vale la pena: chi mi ascolta rimane sempre affascinato».