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 2025  novembre 06 Giovedì calendario

Gli ultimi prigionieri dei nazisti

«Nell’antichità si saccheggiava. Chi conquistava un Paese, disponeva delle ricchezze di quel Paese. Oggi le cose sono fatte in modo più umano. Per conto mio sono per il saccheggio, il totale saccheggio». Sono passati 83 anni da quelle Istruzioni del 6 aprile 1942 di Hermann Göring con quell’osceno richiamo (lui!) al «modo più umano». E quasi un secolo dalle prime assatanate razzie dei beni ebraici. Eppure dopo quello che fu «non solo il più grande genocidio della storia ma anche il più grande furto di proprietà della storia», ha detto allo United States Holocaust Memorial Museum l’ex sottosegretario di Stato usa Stuart Eizenstat nel marzo 2024, «molto resta ancora da fare per ottenere giustizia per coloro che sono stati derubati delle loro opere d’arte e dei loro beni culturali religiosi durante l’Olocausto. Si stima che oltre 100.000 dei 600.000 dipinti e molti di più dei milioni di libri, manoscritti, oggetti religiosi rituali e altri beni rubati non siano mai stati restituiti» e che per farlo servano ancora «decenni di duro e costoso lavoro».
Basti dire, scrive Fabio Isman in L’arte razziata dai nazisti. Gli ultimi prigionieri di guerra, edito dal Mulino, raccontando tra le altre la storia stupefacente di Cornelius Gurlitt, un vecchio senza pensione, senza libretto sanitario, senza conto in banca fermato per caso nel 2010 su un treno con 9.000 euro in contanti, che dei 1.406 dipinti appartenuti a suo padre Hildebrand, uno spregiudicato mercante d’arte nazista, sfuggiti ai bombardamenti e nascosti per 65 anni in un anonimo appartamento bavarese «tra i quali Monet, Cézanne, Delacroix, Renoir, Gauguin, Rodin, Toulouse-Lautrec, Matisse, Chagall», solo una quarantina sono tornati agli eredi dei legittimi proprietari. E gli altri? «Resteranno, con ogni probabilità, ignoti per sempre: sui tanti quadri esaminati, di 650 si è riusciti a sapere ben poco». Per non dire di quelli via via venduti da Cornelius a trafficanti senza scrupoli che non facevano domande.
Un destino comune a larga parte dei tesori rastrellati dagli avidi predatori hitleriani dopo il 1933. Certo, non mancano annose controversie finite col riconoscimento dei torti e delle ragioni. Come quella narrata nel bellissimo film Woman in gold con una strepitosa Helen Mirren che ricostruisce la battaglia di Maria Viktoria Almann per tornare in possesso del Ritratto di Adele Bloch-Bauer (furono i nazisti a cambiargli il nome per «arianizzarlo» rimuovendo quel cognome ebraico ashkenazita) di Gustav Klimt, un tempo appeso in casa della sua famiglia. Battaglia campale con la Österreichische Galerie Belvedere di Vienna e conclusa con la tormentata restituzione della tela oggi ospitata, grazie al miliardario americano Ronald Lauder figlio della mitica Estée, alla Neue Galerie di New York e il finanziamento di una nuova ala del Museo dell’Olocausto a Los Angeles.
Basterebbe a dire tutto, per capire le dimensioni del saccheggio nazista, la straordinaria collezione di opere famosissime citate da Isman a corredo del suo libro, dedicato non a caso alla memoria di Rodolfo Siviero, lo storico dell’arte un po’ 007 e un po’ diplomatico scelto da Alcide De Gasperi dopo la resa della Germania per ritrovare quanto avevano razziato in Italia dai gerarchi hitleriani. Dal fantastico Sopra Vitebsk di Marc Chagall per 75 anni esposto al Moma di New York e tornato nel 2021 ai sette eredi di Franz Zatzenstein al Ritratto di Giorgio il Barbuto, duca di Sassonia di Lucas Cranach il Vecchio e bottega, di proprietà fino alla sua fuga nel ’38 in America dal regime hitleriano del magistrato tedesco Henry (Heinrich?) Bromberg. Dalla Natura morta con vaso di zenzero di Paul Cézanne che il banchiere ebreo Jacob Goldschmidt era stato costretto frettolosamente a svendere per fuggire da Berlino e sarebbe stata scovata a novembre 2024 nel museo Langmatt di Baden, non lontano da Zurigo, fino alla grande tela Danza sulla spiaggia di Edvard Munch finita misteriosamente in un fienile norvegese e posseduta, prima della fuga, a Curt Glaser, illustre accademico ebreo già direttore della Biblioteca Statale d’Arte berlinese.
«Non passa quasi settimana», spiega Isman, «senza che ritorni a galla qualcosa. Di solito, un quadro; e da un luogo imprevedibile e sorprendente. Ma questo accade abbastanza in silenzio: al massimo, se ne legge un trafiletto, o poco più, su qualche giornale straniero, magari locale; o su quelli specializzati. Così, ne sono informati quasi unicamente gli studiosi e gli osservatori più attenti. È il racconto di un passato che non passa. E che almeno una trentina di volte all’anno, si fa di nuovo presente e attuale. Una storia di tante storie, di opere e persone, spesso finite magari nel peggiore dei modi: nei campi di sterminio».
«Ognuna di queste persone espropriate, ogni collezione, ogni dipinto sarebbero degni di un’inchiesta», scrive Hector Feliciano nel libro The Lost Museum: The Nazi Conspiracy to Steal the World’s Greatest Works of Art che, racconta Isman, fu «rifiutato da 30 editori americani e pubblicato poi in Francia». Una storia senza fine. Al punto che, mentre stava per consegnare le bozze, l’autore de L’arte razziata dai nazisti ha dovuto aggiornarle. «A marzo 2025, la Tate Gallery ha restituito agli eredi del mercante ebreo che lo possedeva un dipinto acquistato oltre trent’anni prima, Enea e la famiglia in fuga da Troia in fiamme di Henry Gibbs, del 1654. Nel 1942 le SS l’avevano sequestrato alla Galleria di Anversa di Samuel Hartveld». Costretto lui pure all’esodo per non finire sui vagoni piombati diretti ai forni.