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 2025  novembre 02 Domenica calendario

Margaret Atwood, la vita a modo mio

Pochi mesi dopo l’uscita del mio sesto romanzo, Il racconto dell’Ancella, partecipavo a un evento per promuoverlo. Durante lo spazio dedicato alle domande del pubblico – con microfoni aperti che molti utilizzavano per tenere dei sermoni – un tale presentò la sua opinione. «Insomma, Il racconto dell’Ancella è un’autobiografia» affermò. Non era una domanda.
«No, non è vero» feci io.
«Invece sì». «No, non è così. Si svolge nel futuro» spiegai.
«Non è una scusa valida» ribatté lui.
Si sbagliava, è chiaro. Nell’ambito delle mie esperienze di vita non mi era mai capitato di indossare una tunica rossa e una cuffia bianca, né ero stata costretta a procreare per qualche pezzo grosso di una teocrazia. Eppure, in senso molto lato, quel tizio non aveva torto. Tutto ciò che confluisce nelle cose che scrivi è transitato, in qualche forma, per la tua mente. Tu puoi mischiare, ricombinare, creare nuove chimere, ma la materia prima ti è per forza passata per la testa. Un’“autobiografia” è soltanto una serie di fatti che ti sono capitati nel mondo materiale, o anche la testimonianza di un viaggio interiore? Assomiglia di più a Robinson Crusoe di Defoe (vi spiego perché ho costruito la mia capanna) o all’Apologia Pro Vita Sua di Newman (vi spiego perché è cambiata la mia fede)?
Quando venne fuori l’idea di un “memoir letterario” (chi l’aveva avuta? La memoria fa spallucce, ma era comunque qualcuno del settore) risposi, a lei o lui o loro: «Sarebbe una barba. Avete presente quella tremenda barzelletta sul vecchio pescatore che conta i pesci sulla costa est? “Un pesce, due pesci, un altro pesce, un altro pesce, un altro pesce…”. Il mio “memoir letterario” sarebbe la stessa cosa: “Ho scritto un libro, poi un secondo libro, poi ho scritto un altro libro, poi ne ho scritto un altro…”. Una noia mortale. A chi interessa leggere di una che se ne sta seduta a imbrattare fogli bianchi?».
«Ah, ma non è questo che avevamo in mente!» fecero loro. «Pensavamo a un memoir in stile letterario, capisci?».
Cosa ancor più sconcertante. E come sarebbe stato? In distici eroici finto-ottocenteschi? Quando le seriche dita dell’alba scosteran le tende, al vecchio scrittoio mi troveranno assisa, intenta alla mia Arte.
O magari qualcosa nel fiorito stile gotico di un Poe, tanto per dire? Mentr’era la mia povera testa da mille visioni turbinanti soggiogata, e minacciosi spirti usurpavano i canti bui della stanza, d’un tratto il magico calamo afferrai, ignaro della fosca chiazza che sulla pergamena bianca in demoniache forme si spandeva.
No, non avrebbe funzionato. Una delle mie prime interviste per un quotidiano fu nel 1967. Avevo – con mio grande stupore, e con quello di tutti gli altri – appena vinto l’unico premio letterario che esistesse in Canada a quel tempo, il Governor General’s Award, per la mia prima raccolta di poesie, The Circle Game. Vivevo a Cambridge, Massachusetts, e studiavo a Harvard per il Ph.D. Un giornale canadese decise che era opportuno parlare del mio premio, e spedì un reporter appena tornato dal Vietnam a intervistarmi. Immagino quanto dovevano averlo preso per i fondelli i suoi colleghi. E ultimamente hai intervistato altre giovani poetesse? Indossavo un miniabito rosso e calze a rete. Il reporter non era in giubbotto antiproiettile, ma avrebbe anche potuto esserlo. Ci sedemmo in un caffè. Mi guardò. Io lo guardai. Eravamo entrambi perplessi. Alla fine lui fece: «Dica qualcosa di interessante. Dica che per scrivere le sue poesie si fa di qualche droga».
È questo genere di cose che ci si aspetta che racconti in un memoir letterario? Alcolismo, bagordi, stupefacenti, manifeste trasgressioni sessuali, con la scrittura trattata come un sottoprodotto che trasudava o germogliava dalla compostiera della mia oltraggiosa condotta? Però non è così che avevo speso il mio tempo, almeno per la maggior parte. «Magari no» dissi a chi aveva proposto il memoir letterario. O forse lo dissi a me stessa? In ogni caso, la parola chiave era no.
Passò del tempo, e l’idea del memoir cominciò ad acquistare una sinistra luminescenza. L’idea non aveva un che di allettante? sussurrava il mio infido ego. Avrei potuto ritrarmi nella luce più propizia e velare di una diafana bruma le mie mosse più perfide o sciocche, addossandole ad altri. Al contempo avrei potuto ringraziare i miei benefattori, premiare gli amici, demolire i nemici e saldare conti in sospeso che tutti, tranne me, avevano dimenticato da un pezzo. Avrei potuto vuotare il sacco, spiattellare chissà cosa. Quando aveva pubblicato alla soglia dei sessant’anni Il quinto incomodo, nel 1970, a Robertson Davies fu chiesto perché avesse aspettato tanto a tornare alla narrativa dopo il successo dei suoi primi romanzi umoristici. La risposta fu laconica: «Certe persone… sono morte».
È vero. Certe persone muoiono, e dopo si possono raccontare cose che magari si erano taciute. Però – mi dissi – non avrei dovuto per forza limitarmi a quella specie di squallida contabilità. Potevo imbarcarmi in un viaggio alla ricerca del mio io più autentico, ammesso che una cosa simile esista. Come minimo avrei potuto esaminare le tante immagini di me che nel corso degli anni si sono materializzate e poi sono svanite, alcune ordite da me, e tante altre – meno positive, a volte decisamente spaventose – frutto di proiezioni altrui. Mi sono state poste domande molto strane. «Perché ha una bocca così piccola?» si informò qualcuno per lettera. «Come mai nei suoi libri ci sono tante bottiglie?» mi sentii chiedere a un reading. «I suoi capelli sono davvero così o se li fa fare?» Rimane, questa, una delle domande che preferisco: mi venne fatta dopo una presentazione in una palestra di una cittadina dell’Ottawa Valley, dove nessuno scrittore vivente si era mai spinto prima.
Certe varianti di me terrorizzano gli intervistatori; altre suscitano penosi lamenti nei politici. Un mio sguardo torvo induce alle lacrime uomini forti, che si coprono le pudenda nel timore che coi miei occhi da Medusa gli pietrifichi le gonadi.
Gli occhi da Medusa fanno pendant coi capelli, che un tempo venivano citati nelle recensioni, all’epoca in cui l’invettiva era più disinibita e il body shaming era la norma, specie quando era un uomo a recensire una donna. Incuteva paura, una chioma riccia e/o crespa e/o preraffaellita; se poi la portavi sciolta, quanto dovevi essere sregolata, per non dire fuori di senno: una discendente di tutte quelle creazioni letterarie ottocentesche che vagavano per le campagne o si buttavano dai tetti dei castelli, o di altre, precedenti, come Ofelia, trasportate dai fiumi, matte da legare, con trecce ondeggianti. Non stupisce che le scrittrici delle generazioni precedenti prediligessero gli chignon stretti e – in seguito – meticolose e lucide permanenti a freddo.
Le streghe, ovviamente, si scioglievano i capelli per lanciare incantesimi, scatenare trombe d’aria, e sedurre gli uomini: può darsi che qualcuna di queste credenze sopravvivesse tra i commentatori culturali della metà del Ventesimo secolo, e contribuisse alla mia stregonesca reputazione. (...)
«Scrive come un uomo» disse di me un collega poeta nei primi anni Settanta, con l’idea di farmi un complimento.
«Ti sei scordato della punteggiatura» replicai. «Forse intendevi: “Scrive. Come un uomo”». Risposte di questo genere mi tornavano comode, all’epoca.
Se mi fossi imbarcata nell’impresa del memoir, considerai, avrei potuto analizzare tutte quelle immagini, oltre ad alcune altre che in genere venivano trascurate. Sono ancora, in cuor mio, la riccioluta ballerinetta di tip-tap del 1945? La rock’n’roller in crinolina e scarpe basse del 1955? La zelante poetessa in erba e scrittrice di racconti del 1965? L’inquietante autrice affermata e agricoltrice part-time del 1975? Oppure la versione di me forse più nota: la cattiva dattilografa che inizia Il racconto dell’Ancella a Berlino e lo conclude a Tuscaloosa, Alabama, per poi pubblicarlo, suscitando pareri contrastanti, nel 1985?
Poi si sono susseguite altre interpretazioni. Col passare degli anni ho avuto alti e bassi nella considerazione del pubblico, mentre inevitabilmente invecchiavo. Mi sono affievolita e ho vacillato, ho brillato e sfavillato, mi sono guadagnata sacre aureole e corna infernali. Chi non si divertirebbe a esplorare questi specchi deformanti?
Forse sono una creatura liminale, partecipe di due nature, custode di soglie, metamorfica pressoché a piacimento; una sorta di Baba Jaga ora benevola ora ostile, che abita in una capanna in un bosco posata su due zampe di gallina, si sposta in volo su un mortaio con un pestello per timone canticchiando un motivo allegro e a un tempo minaccioso.
Nel mio caso, il motivo è con tutta probabilità la marcetta dei sette nani che vanno a lavorare nella Biancaneve di Walt Disney, che mi traumatizzò da bambina. È sacra ai workaholic bassi di statura, categoria di cui faccio parte, ma l’origine del trauma fu un’altra: a sei anni rimasi pietrificata dalla scena della trasformazione, in cui la bellissima regina beve la pozione magica, diventa verde e si trasforma in una vecchia bitorzoluta. Che cosa orrenda, eppure così essenziale! Attorno alla bella e melodiosa Biancaneve ruota la storia, ma lei non contribuisce all’azione: le scene migliori sono appannaggio della regina cattiva. Ogni scrittore sa che è così. E ogni scrittore sa che senza la regina cattiva, o le sue altre incarnazioni – l’invasione degli alieni, l’uragano, la rovinafamiglie, il sinistro assassino, i serpenti sull’aereo, il killer nella casa di campagna – la trama non esiste.
Ogni scrittore è almeno due creature: quella che vive e quella che scrive. Le domande del pubblico dopo la presentazione di un libro sono un’illusione: a presenziare quel genere di eventi è l’essere che vive, non quello che si occupa di scrivere. Come potrebbe essere altrimenti, dato che in quel momento non si scrive? Come Jekyll e Hyde i due hanno in comune la memoria e persino il guardaroba. E benché ogni parola scritta debba essere passata per le loro menti, o per la loro mente, si tratta di due esseri distinti.
Quello che si occupa di scrivere ha accesso illimitato alla banca dati. La parte che si occupa di vivere può farsi un’idea di cos’abbia combinato l’altra che scrive, ma meno di quanto potreste pensare. Mentre si scrive, non ci si osserva, perché se si cominciasse a studiare il proprio cosiddetto “processo creativo” mentre è in pieno slancio, lo si bloccherebbe di colpo.
Si scrive in trance, come suggerirebbe il racconto di Coleridge sull’ideazione di Kubla Khan? Non proprio: si può fare una pausa, preparare il caffè, rispondere al telefono, mostrare ogni segno di normalità. Io, quanto meno, posso. Eppure non si può ignorare la sensazione che qualcos’altro abbia il sopravvento; troppi scrittori l’hanno attestata.
Condizione di flusso, ispirazione, personaggi che prendono l’iniziativa strappandola all’autore, visioni oniriche, esperienze extracorporee: testimonianze troppo numerose perché le si possa trascurare.
Oltre a questo, esistono almeno due modelli di scrittore: i devoti dell’Apollo che strimpella la lira, altamente consapevoli della struttura e dell’armonia, con la sua frotta di muse; e quelli che invece invocano Ermes, dio degli inganni, delle burle e dei messaggi, occultatore e rivelatore di segreti, patrono dei viaggiatori e dei ladri, accompagnatori d’anime nell’Ade. Quando rivedi una prima stesura è di Apollo che hai bisogno; se invece resti bloccato nel bel mezzo della trama magari ti appellerai a Ermes, apritore di porte, anche se non c’è garanzia di quel che potrebbe trovarsi al di là. Che i due siano inseparabili risulta evidente dal mito delle loro divine origini: tanto per cominciare, la lira di Apollo l’ha costruita Ermes. Tante civiltà hanno una loro versione di questo dualismo, poiché per qualsiasi forma d’arte sono necessarie sia la forma che la forza.
A ciò potremmo aggiungere Bacco, dio del vino, fautore della divina intossicazione, dissolutore di inibizioni. Non pochi hanno scritto sotto l’effetto di questa o quest’altra sostanza. Per quanto mi riguarda, è la caffeina.
Ci sono scrittori che amano parlare del proprio “materiale”. Marian Engel, autrice del romanzo Orso, mi raccontò delle sue dolorose esperienze infantili, quando lei e la sorella gemella vennero date in adozione: le avevano separate quando avevano pochi anni perché la gemella la attaccava con violenza. Poi aggiunse: «Copyright». Intendendo che quello era materiale suo, non mio. Stava scrivendo di quelle sue prime esperienze quando morì.
Ma da dove viene questo”materiale” assortito? Viene da ciò che in generale è ritenuto essere la tua vita e la tua epoca. Ti succedono delle cose, o ne senti parlare. Cose grosse e piccole. Alcune delle quali hanno un impatto su di te, o ti rimangono addosso. Non si può sfuggire allo spaziotempo in cui viviamo. Nessuno può. Quello che si scrive ne farà parte e vi sarà legato, anche se il libro è ambientato su un altro pianeta o in un altro secolo. Non può essere altrimenti.
Quindi, inevitabilmente, mi toccherà descrivere le caratteristiche dei miei personali spaziotempi, se intendo gettare un minimo di luce su questa faccenda dello scrivere. Preparatevi a descrizioni di tecnologie obsolete come ghiacciaie sotterranee o passavivande per il latte, e spiegazioni di arcaici rituali sociali come balli senza scarpe o fare coppia fissa. E a sommarie indicazioni sulle mode del tempo, quali tailleur pantalone, minigonne, abiti a trapezio e look etnici.
Io mi muovo nel tempo, e quando scrivo il tempo si muove attraverso di me. È la stessa cosa per tutti. Non si può fermare il tempo, né si può afferrarlo: scivola via come il fiume Liffey in Finnegans Wake. I ricordi possono essere vividi ma inaffidabili, i diari possono distorcere i fatti. Nondimeno ogni esistenza ha i suoi sapori e i suoi intrecci, e io tenterò di evocare quelli della mia.