Robinson, 2 novembre 2025
Io e quel piano al buio suonato per il maestro
Non so se sia davvero una fortuna o piuttosto una condanna avere avuto la propria vita attraversata da un genio. Accade che un quindicenne innamorato della musica, promettente pianista, incroci improvvisamente il proprio destino. Ancora non lo sa, ma dopotutto la fama che avvolge il suo futuro maestro lo rappresenta come un uomo inarrivabile, caratterialmente difficile, bizzarro e imperioso. Un uomo che quando poggia le mani sulla tastiera sembra trasformare il mondo che lo circonda. Arturo Benedetti Michelangeli, scomparso trent’anni fa – è una leggenda e come tutte le leggende è esposta a al termometro impreciso della chiacchiera. Perciò chi meglio di uno che ha vissuto quasi un anno a stretto contatto con lui può raccontarne gli aspetti meno noti? Lo fa senza strafare, senza amplificare perché alla fine bastano le gesta e i pensieri del maestro a riempire le pagine che ne Il mio maestro Carlo Maria Dominici gli ha dedicato, con devozione, affetto ma altresì con il bisogno di ristabilire una verità tardiva e forse necessaria.
Nella copertina del suo libro, c’è una sua foto giovanile: lei è accanto ad Arturo Benedetti Michelangeli che stringe al petto un gattino.
«Eravamo sulla terrazza della sua baita. Quel gesto esprimeva il suo amore per gli animali. Aveva due gatti e solo lui poteva dar loro da mangiare».
Era un affetto possessivo?
«La relazione con le persone che amava non poteva che essere esclusiva. Un po’ come con il pianoforte, che per lui non era uno strumento neutro bensì vita, respiro, energia, anima. Ma più che di possesso parlerei, in questo caso, di un unione in qualche modo mistica».
Veniamo a lei. Dominici non è un nome conosciuto.
«Ho fatto concerti nei teatri di tutto il mondo, ho 75 anni. Provengo da una famiglia italoamericana, da qualche anno vivo a Roma dove perlopiù insegno pianoforte».
Dove è nato esattamente?
«A Villa San Giovanni, praticamente un’estensione di Reggio Calabria. Mio padre, figlio di emigrati, era nato negli Stati Uniti e decise di tornarci. Avevo 4 anni quando con la famiglia ci trasferimmo nel New Jersey. Abitavamo in un piccolo centro, frequentavo una scuola cattolica gestita dalle suore. E la prima cosa in cui mi imbattei fu un vecchio pianoforte che proveniva da un saloon del Texas. Restai affascinato dallo strumento».
Quando ha iniziato a suonare?
«A cinque anni. Mio padre, pianista e organista, mi ha seguito e poi affidato a vari insegnanti. All’età di 10 anni, caso forse unico, vinsi una borsa di studio e fui ammesso alla prestigiosa Juilliard School. Lì selezionavano i migliori talenti. Per stare al passo, vista la giovane età, prendevo anche lezioni private. Alcune anche con Vladimir Horowitz. A volte dopo la lezione la moglie, che era figlia di Toscanini, mi invitava a prendere un té».
Horowitz era così libero da impegni da poter insegnare?
«Si era preso un lungo sabbatico dai concerti e aveva deciso di aiutare gli allievi che riteneva promettenti. Accade che un grande pianista trovi il tempo per l’insegnamento. Il caso forse più bello è quello di Benedetti Michelangeli che aprì una sua scuola estiva ad Arezzo, dove arrivavano ragazzi di tutto il mondo cui dava lezione gratis».
Il vostro rapporto come è nato?
«Nel periodo in cui frequentavo la Julliard ebbi l’opportunità di sentire suonare i più grandi pianisti: Glenn Gould, Arthur Rubinstein, Claudio Arrau, Georges Cziffra. Ma le assicuro che per me ascoltare Michelangeli fu qualcosa di unico. Accadde alla Carnegie Hall, nel gennaio del 1966. Avevo 16 anni. Alla fine del concerto fui come travolto da una specie di esaltazione mentale. Qualche giorno dopo, vedendo che quello stato d’animo si prolungava, mio padre mi propose un viaggio in Italia per tentare di partecipare come uditore all’Accademia Chigiana, dove il maestro teneva corsi di perfezionamento».
Fu a Siena dunque che vi incontraste?
«Fu lì e ovviamente non era affatto scontato che fossi ammesso. Come altri venni sottoposto a un esame da parte del maestro. Ero terrorizzato dalle urla con cui aveva cacciato altri candidati. Gli presentai il programma: Scarlatti, Beethoven, Paganini, Chopin e due preludi di Debussy. E alla fine mi congedò senza commenti».
Immagino la sua ansia.
«Suonai bene e il maestro non aprì bocca. Quantomeno, pensai, non ero stato cacciato. Poi uscì l’elenco degli ammessi e io non c’ero. Ci restai malissimo. Scoprii in seguito che sebbene mi avesse dato il voto più alto ero troppo giovane. Il regolamento dell’Accademia richiedeva il diploma in pianoforte che non avevo ancora conseguito. Alla fine si trovò un compromesso. Partecipai alle lezioni come uditore. Terminato il corso tornai negli Stati Uniti, immaginando che non lo avrei più rivisto».
La svolta nei vostri rapporti quando ci fu?
«Quando venne nuovamente a New York per due concerti andai sentirlo insieme ai miei. Suonò con grandissimo successo prima alla Carnegie Hall e qualche settimana dopo al Lincoln Center. Era l’ottobre del 1966. Fu in quella occasione che lo incontrai dopo il concerto. Mi chiese di studiare con lui. Ovviamente nell’entusiasmo di tutta la famiglia accettai, consapevole tuttavia che sarei dovuto tornare in Italia».
Ha trascorso quasi un anno con il maestro, vivendo soprattutto nella baita a Rabbi, nel Trentino. Chi c’era oltre a voi due?
«La sua assistente giapponese Yoko Kono e Gemma, la donna che si prendeva cura della casa. Ogni tanto venivano a fargli visita Maurizio Pollini e Marta Argerich che il maestro trattava con affetto».
Li considerava tra i suoi allievi migliori
«Talenti assoluti, ai quali accosterei Lodovico Lessona che morì prematuramente in un incidente aereo. La sua scomparsa gettò il Maestro in un grande sconforto. Fu la sola volta in cui vidi Benedetti Michelangeli piangere».
Lei in tutto questo perché fu scelto?
«Immagino che avesse colto in me particolari doti pianistiche. In quei mesi di convivenza fui sottoposto a un severo ed estenuante programma di studi. Cui si accompagnò anche qualche stravaganza».
Del tipo?
«A un certo punto il Maestro pretese che imparassi a suonare al buio. Davanti alle mie resistenze diventava imperioso: “Suona! Non devi vedere il pianoforte, devi sentirlo!”. A me sembrava frustrante e ci vollero diversi mesi perché imparassi ciò che è naturale per chi non vede».
A 16 anni non avvertiva il peso per il troppo impegno?
«Certi giorni pensavo di essere finito in una gabbia. Mi sembrava di aver smarrito la spensieratezza».
Intende dire che si sentiva “prigioniero” delle decisioni del Maestro?
«Prigioniero è una parola eccessiva. Ero consapevole che studiare e apprendere richiedessero un’autodisciplina al limite della ferocia. Non attribuivo la colpa al Maestro perché mi esercitavo per ottenere risultati eccellenti. Restava che a 16 anni avevo i desideri di un adolescente. Mi mancavano i miei amici del New Jersey».
Fuori dalle lezioni come si comportava il Maestro?
«Intanto le lezioni non avevano orario, potevano essere impartite nel pomeriggio come dopo cena. Quando non insegnava poteva ignorarmi per ore o essere straordinariamente affabile. Nel corso della giornata cambiava umore più volte».
Amava cucinare.
«Si esercitava ai fornelli con dedizione prussiana. Era notevolmente bravo, ma anche qui mi imponeva di mangiare i cibi che sceglieva lui. Ad esempio, amando particolarmente il riso lo cucinava spesso e poi usava le bacchette. Pretese che anch’io mi adeguassi al modo orientale di mangiarlo. Più non ci riuscivo e più insisteva. Mi pareva un incubo, questo sì».
Era vegetariano?
«No, amava la carne che andava a scegliere personalmente dal suo macellaio di fiducia. A volte lo accompagnavo. Salivamo sulla sua Ferrari per giungere al paese. Lì si intratteneva scegliendo i pezzi che aveva in mente di cucinare».
L’automobile in quei posti immagino fosse una rarità.
«La gente si spostava con la bicicletta o con il carro. Lui amava le macchine sportive. Enzo Ferrari, suo grande ammiratore, gli aveva fatto avere, non so se come regalo o a un buon prezzo, una sua macchina. Certo, a molti la guida di Benedetti Michelangeli sembrava spericolata, in realtà era un abilissimo pilota».
Durante i vostri pranzi che cosa accadeva?
«A colazione non mi parlava. Era come assente. Quando pranzavamo sì e no mi rivolgeva la parola. La sera a cena dilagava nella conversazione. Se poi era un po’ alticcio si lanciava nel suo repertorio di barzellette, o mi raccontava storie avventurose alle quali giurava di aver preso parte. Ma spesso erano il parto della sua fantasia».
Era rimasto in lui un aspetto fanciullesco.
«Ho spesso pensato che desiderasse a volte tornare bambino. Una delle sue immancabili letture era Topolino. Amava pazzamente imitare alcuni personaggi di Walt Disney. Adorava il cinema».
Uscivate spesso dalla baita?
«Sì e la cosa che più di tutte mi sorprese fu quando, in una delle incursioni in paese, mi disse: “Carlo, qui in pubblico mi devi chiamare papà”. Interpretai la richiesta come una stravaganza. Ma se capitava che davanti ad altri lo chiamassi Maestro lui insisteva con questa storia del padre».
Forse lei era il figlio che avrebbe voluto?
«Non lo so. Ma alla fine la voce si sparse e cominciarono a ronzare intorno alla casa vari giornalisti. Qualcuno ci riprese insieme e uscì un articolo su un settimanale con una mia foto e la didascalia: “Ecco il figlio segreto di Arturo Benedetti Michelangeli”».
Come reagì?
«Si divertì come un pazzo davanti a questo improbabile pettegolezzo, al punto che alla domanda se ero davvero suo figlio, rispondeva vagamente».
Che idea si è fatto alla fine di Benedetti Michelangeli privato?
«È stato un uomo generoso e imprevedibile. Ho assistito ad atti di grande disponibilità verso persone comuni in grande difficoltà».
Anche il Maestro finì in difficoltà.
«È una storia penosa nella quale fu coinvolto da persone che riteneva amiche e di cui si era fidato. Per un’inadempienza contrattuale con una casa discografica che era fallita, gli furono sequestrati i beni, compresi i pianoforti. Quell’atto violento, per lui incomprensibile, lo spinse ad andare via dall’Italia e neppure le scuse ufficiali, quando si accorsero della sua estraneità, gli fece cambiare idea».
Andò a vivere in Svizzera.
«A Pura, in un villaggio non distante da Lugano. Ci andò con la sua nuova compagna che in pratica lo isolò dalle persone con le quali in precedenza aveva avuto un rapporto».
Anche da lei?
«Anche da me, certo. La signora mi proibì di vederlo. Provai più volte ad avvicinarlo ma fu impossibile. Dopo una serie di scontri con lei mi rassegnai all’idea che non l’avrei più visto. I nostri legami si limitarono a qualche telefonata e a delle cartoline che mi spediva in occasione del mio compleanno».
Era succube di quella donna?
«Penso proprio di sì. E ne ho sofferto. Ma a distanza di tanti anni penso anche che quella “sorveglianza” abbia paradossalmente aiutato Benedetti Michelangeli. Grazie a lei tornò a fare concerti e a incidere dischi. Nonostante la malattia cardiaca e le amarezze subite ha suonato fino all’ultimo. È morto a Puma. È sepolto nel piccolo cimitero dove ogni anno porto dei fiori. In quel piccolo rito mi sembra di ritrovare il candore della mia adolescenza. In fondo, anche di questo gli sono debitore»