La Lettura, 4 novembre 2025
Aprire tutto: cambiamo aria alla musica da camera
Ascoltare musica da camera – cioè brani per piccole formazioni che possono trovare spazio in una stanza, come il quartetto d’archi, il duo violino e pianoforte, il trio... – è una pratica che in Europa ci portiamo dietro dal Rinascimento. All’inizio interpreti e ascoltatori coincidevano: in sostanza, all’epoca delle viole da gamba e dei clavicembali, era musica che si suonava per sé. Poi, dall’inizio dell’Ottocento, quando a poco a poco si è definito il concetto di pubblico così come lo intendiamo ora, sono esistite associazioni musicali nate apposta perché i loro abbonati potessero ritrovarsi a seguire esecuzioni cameristiche. Oggi un’impressione diffusa è che questo meccanismo, che è rimasto vivo e sostanzialmente immutato per duecento anni, si stia inceppando; che il pubblico interessato ad ascoltare musica da camera sia sempre di meno; che la capacità stessa di sedersi e godere dell’ascolto di un quartetto di Ludwig van Beethoven o di una sonata di Bela Bartók si stia atrofizzando.
Ma è vero? «La Lettura» lo ha chiesto a quattro musicisti-organizzatori: Fulvia De Colle, pianista e clavicembalista, direttrice artistica di Musica Insieme, a Bologna; Andrea Lucchesini, pianista, che guida gli Amici della Musica di Firenze; Hugo Ticciati, violinista britannico che ha inventato le stagioni dell’ensemble O/Modernt («non moderno») di Stoccolma, dove chiede agli strumentisti di alternare insieme a lui musica classica, jazz, pop, folk; e Antonio Valentino, pianista, alla testa dell’Unione Musicale di Torino.
Che cosa sta succedendo? Sembra anche a voi che qualcosa si stia irrimediabilmente perdendo?
ANTONIO VALENTINO – Credo che la musica da camera resti oggi più che mai un’esperienza viva, unica; ma riconosco che le modalità di fruizione si stanno modificando. D’altronde l’abitudine a sedersi per ascoltare un quartetto o una sonata richiede tempo, concentrazione e silenzio: qualità sempre più rare nella vita moderna. La mia esperienza all’Unione Musicale di Torino, però, dimostra che il pubblico non è scomparso: ha solo cambiato forma. Le persone curiose esistono, sono giovani e meno giovani, cercano un contatto diretto con la musica, e apprezzano la vicinanza degli interpreti, l’intimità della sala da concerto. La sfida, certo, è quella di coinvolgerli, concerto dopo concerto.
ANDREA LUCCHESINI – È vero: nella velocità degli stimoli che ci siamo abituati a percepire, l’ascolto di un concerto cameristico si pone come una pratica che definirei «eversiva». Uscire da casa per andare in un luogo specifico ad ascoltare musica significa esser riusciti, almeno temporaneamente, a interrompere la corrente, e ritrovarsi a pensare in compagnia degli interpreti e degli autori, nel tempo lungo di un pezzo di musica. Il fatto che quest’abitudine non sia per tutti è evidente; ma non vorrei essere troppo pessimista.
FULVIA DE COLLE – E non dobbiamo esserlo! Dopo il drammatico spartiacque del lockdown, a Musica Insieme abbiamo notato un ritorno allo spettacolo dal vivo. Oggi poi, atterriti dalle guerre e dalle atrocità intorno a noi, la musica da camera rappresenta sempre più un rifugio, grazie all’evasione, certo, ma anche all’introspezione che ci viene offerta dal dialogo intimo tra i musicisti.
Sta cambiando la tipologia dei frequentatori di concerti di musica da camera?
ANDREA LUCCHESINI – C’è sempre lo zoccolo duro delle persone anziane, che amano la musica e considerano il concerto anche un’occasione di socializzazione; sono meno presenti i quaranta-cinquantenni, ai quali in generale non sono stati dati gli strumenti per conoscerla.
ANTONIO VALENTINO – Ma senza dubbio la tipologia dei frequentatori sta cambiando. L’abbonato tradizionale, che seguiva con continuità l’intera stagione, tende a ridursi: oggi molte persone scelgono di volta in volta i concerti.
FULVIA DE COLLE – Anche a Bologna. E le chiavi per attrarle secondo me sono essenzialmente due: far capire quanto sia emozionante ascoltare la musica dal vivo e far capire che non c’è niente da capire! Quando apprezziamo un bel film, non serve sapere come si realizzi un piano sequenza: per la musica è lo stesso, si tratta soprattutto di un’emozione da condividere con gli altri. Basta sedersi insieme a noi e ascoltare.
HUGO TICCIATI – Siamo onesti: il panorama e le dinamiche di ciò che definiamo «musica classica», ben oltre il ristretto ambito della musica da camera, hanno subito negli ultimi decenni una metamorfosi profonda, seguendo un processo che non accenna a rallentare. È fin troppo facile accusare il pubblico contemporaneo di scarsa concentrazione o di preferire melodie celebri e contorni spettacolari. Più che rimpiangere un passato idealizzato, la trasformazione che stiamo attraversando deve essere vista come un’opportunità, decisamente entusiasmante: un invito per interpreti e organizzatori a reinventare costantemente il proprio modo di proporre la musica, liberandosi da formule ormai logore.
FULVIA DE COLLE – E tu che cosa proponi?
HUGO TICCIATI – La domanda, oggi, non è più: «Come riconquistare l’attenzione del pubblico?». Noi musicisti, sostenuti da chi promuove la musica, ci dobbiamo chiedere come ispirare l’ascoltatore di oggi a diventare parte attiva dell’esperienza, a riscoprire la forza e la bellezza che risiedono nei capolavori della tradizione occidentale. Siamo noi che dobbiamo cambiare testa.
Che cosa si insegnava nei Conservatori qualche decennio fa a giovani musicisti che intendevano intraprendere una carriera nell’ambito della musica da camera? E che cosa si insegna oggi?
ANDREA LUCCHESINI – I bravi maestri hanno sempre insegnato il rispetto e l’amore per questo repertorio, ma direi che forse oggi l’idea di suonare insieme sia più presente del solismo, sul quale nei decenni passati si puntava in modo quasi esclusivo (per coloro che avrebbero forse potuto riuscire; gli altri venivano semplicemente dissuasi). Non è un caso che oggi si costituiscano moltissimi ensemble cameristici nelle più varie declinazioni.
FULVIA DE COLLE – Pensiamo ad esempio a come nei Conservatori la materia di Musica d’insieme per archi e fiati si è ampliata con il tempo a strumenti antichi e gruppi jazz.
ANTONIO VALENTINO – Possiamo anche essere più espliciti: qualche decennio fa, nei Conservatori la musica da camera era considerata un’attività facoltativa, un complemento all’educazione musicale principale. I giovani musicisti la praticavano solo per diletto e l’insegnamento non prevedeva un esame finale. Oggi la situazione è molto diversa: esistono bienni e corsi specifici di musica d’insieme, con programmi strutturati, docenti dedicati e percorsi mirati a formare interpreti capaci di dialogare tra loro, capire le dinamiche di gruppo, affrontare repertori complessi e sviluppare la sensibilità necessaria per la musica da camera professionale.
Nella vostra pratica di interpreti, di cameristi, vi sei trovati a interrogarvi su ciò che andavate facendo?
HUGO TICCIATI – Ogni interprete dovrebbe chiedersi regolarmente come mantenere viva la propria arte. Ma la sfida più grande è farlo in modo autentico, senza cadere nella tentazione di compiacere l’ascoltatore. Perché essere fedeli a sé stessi e allo spirito delle opere che si eseguono è un atto di integrità artistica e solo così si può creare un dialogo vitale tra musicista, musica e pubblico, un dialogo che trasformi il concerto dal vivo in un’esperienza davvero rigenerante. Troppo spesso, invece, organizzatori e artisti – specie quando assumono un ruolo curatoriale – concentrano la loro attenzione sul cosa eseguire, privilegiando il grande repertorio, come è naturale si faccia per cercare di vendere biglietti. E invece è il come a lasciare un segno duraturo. È il modo in cui la musica prende vita, si offre e si trasforma in un’esperienza condivisa, che cattura chi viene ad ascoltare non per abitudine ma perché ha un desiderio di senso.
ANTONIO VALENTINO – Diciamo che sei piacevolmente costretto a domandarti il senso di ciò che fai, perché la musica da camera, più che altre forme, richiede attenzione reciproca e una consapevolezza condivisa tra gli interpreti. Come membro del Trio Debussy, lo so bene: ogni gesto, ogni pausa ha un significato.
ANDREA LUCCHESINI – Ho avuto la fortuna di condividere l’inizio dell’attività cameristica con un artista vivace e speciale come Mario Brunello, e di trovare nell’Unione Musicale di Torino uno spazio per fare musica da camera a 360 gradi per molti anni. Antonio, tu all’epoca eri un ragazzo ma lo ricorderai di certo. La pratica cameristica è per me da allora fonte di gioia, e sono certo che l’entusiasmo degli interpreti sia contagioso anche per chi ascolta.
Esiste ancora l’abitudine della «Hausmusik», della musica da camera eseguita in casa, per diletto?
ANTONIO VALENTINO – Purtroppo in Italia questa pratica si è quasi persa. Da giovane, invece, ho avuto la fortuna di praticarla con grande piacere a casa dei signori Vallora, a Torino: pomeriggi trascorsi tra pianoforte e archi in un clima di curiosità, di gioia condivisa.
ANDREA LUCCHESINI – Beh, a casa mia si faceva musica tutto il giorno… Mio padre era un polistrumentista, che aveva formato una big band di musicisti dilettanti per i quali scriveva le parti in base alla capacità di ognuno.
FULVIA DE COLLE – A Bologna sono tanti gli appassionati che invitano nel salotto di casa i talenti per farli conoscere e offrire loro un «primo palco». E molte delle giovani stelle di oggi, come Beatrice Rana o Laura Marzadori o i fratelli Khachatryan, vengono da case in cui suonare insieme era come giocare. Ma in fondo le stagioni cameristiche non sono forse un’amplificazione della Hausmusik? Per noi gli abbonati sono amici che ci vengono a trovare.
Le vecchie avanguardie di compositori hanno allontanato il pubblico dalla loro produzione, e dunque ormai da più di un secolo le società di concerto propongono quasi solo musica del passato. Questo ha ovviamente generato un certo grado di usura del repertorio, che viene ripetuto e ripetuto ancora…
HUGO TICCIATI – Se ci si pensa, ciò che condividiamo non sono solo note, ma esperienze. Ed è questo viaggio condiviso che conferisce alla musica il suo valore più profondo. Nel mio lavoro con O/Modernt questa visione si traduce in due principi fondamentali: il primo è che non esiste musica «antica» o «nuova» ma solo la musica che suona nel presente; il secondo è che il suono non conosce confini.
ANDREA LUCCHESINI – Come interprete so che il lavoro di scavo che facciamo nelle tante ore di studio che servono a preparare un concerto danno nuova luce a pagine ascoltate molte volte. Dunque all’usura in teoria si pone rimedio. Ma come musicista e come organizzatore sono consapevole del problema e cerco di proporre anche musica nuova.
ANTONIO VALENTINO – È vero che le vecchie avanguardie hanno spesso allontanato il pubblico dalle loro proposte e che, da oltre un secolo, le società di concerto propongono prevalentemente musica del passato, in modo ripetitivo. Non possiamo nascondercelo. Ma credo anche io che il variare degli interpreti sia sufficiente a mantenere viva l’emozione: la musica classica non è mai ferma, continua a dialogare con il presente attraverso chi la esegue.
FULVIA DE COLLE – E poi dobbiamo ricordarci che ogni arte è stata contemporanea, nella sua epoca. Così come andiamo ai concerti pop per riascoltare dal vivo le nostre canzoni preferite ma anche i pezzi dei nuovi album, credo che possano convivere entrambe le cose: emozionarci con un capolavoro senza tempo ma anche programmare una prima esecuzione assoluta (e farne però una seconda, e una terza, perché diventino repertorio).
HUGO TICCIATI – Visto che citi il pop: se intendiamo la musica come «espressione sonora», allora le barriere tra stili, generi, epoche e tradizioni non sono più reali delle linee su una mappa. Non si tratta di cancellarle per eliminare le differenze, ma di celebrarle per ciò che ciascuna rappresenta. E, paradossalmente, un modo efficace per farlo è far convivere generi apparentemente inconciliabili, creando accostamenti inediti, sorprendenti. In queste giustapposizioni, ciò che ci è familiare può apparire nuovo e ciò che sembrava distante può rivelarsi vicino...
FULVIA DE COLLE – Hai ragione. Il problema spesso nasce proprio dal voler etichettare quello che proponiamo al pubblico. Citando Duke Ellington, ci sono solo due tipi di musica: la buona musica e tutto il resto. E se la musica è scelta con intelligenza e ben suonata, poi è solo questione di gusti.
Antonio Valentino, lei perché, ad esempio,si dedica con così tanta energia alle canzoni di Paolo Conte in versione strumentale?
ANTONIO VALENTINO – Io sento una forte necessità di eseguire musica scritta oggi e sono davvero consapevole che parte di essa tra qualche anno potrà diventare «classica» o altro… Il piacere di suonare le canzoni di Paolo Conte nasce anche da questo: lui ha saputo offrire uno spaccato vivo di un modo di fare musica d’autore che, in fondo, mantiene legami profondi con la tradizione classica. Potrei definirlo un raro caso di cantautore «classico», uno che non sente né ha mai sentito il peso del tempo. Suonare la sua musica, poi, è anche un’esperienza di connessione immediata con il pubblico: molti riconoscono le melodie, le rivivono e le percepiscono in una luce diversa, proprio come succedeva ai tempi di Mozart, quando nelle strade si canticchiavano le arie da Le n ozze di Figaro.
Si è ridotta la soglia di attenzione del pubblico? E la vostra? Avrebbe senso riaccenderla con procedure, formulazioni, organizzazioni diverse del tempo che si trascorre a un concerto?
FULVIA DE COLLE – Oggi siamo tutti più distratti, è innegabile: concerti più brevi e in un tempo unico sono talvolta buone idee, però l’intervallo è socializzazione, commento, condivisione: non lo abolirei del tutto. E poi certi concerti riescono a sospendere il senso del tempo, a farci fluttuare nella musica.
ANDREA LUCCHESINI – Sono d’accordo. La soglia di attenzione si è inevitabilmente ridotta, ma per quanto mi riguarda resto un ascoltatore «seriale» e sempre coinvolto. Nel mio lavoro alla direzione artistica sto cercando di variare le proposte con formule diverse: agli Amici della Musica di Firenze ho introdotto Musica &…, un ciclo che esplora la compresenza tra varie arti (letteratura, danza, cinema, narrazione) con risultati spesso sorprendenti.
ANTONIO VALENTINO – Credo che l’attenzione sia qualcosa che si può imparare, allenare, coltivare. Andare al concerto è una pratica fondamentale per svilupparla, perché abitua l’orecchio e la mente a concentrarsi e a seguire dialoghi complessi tra strumenti. Detto ciò, nella programmazione di una stagione concertistica mi sono sempre posto il problema, che negli ultimi anni è diventato particolarmente evidente. Per questo offriamo introduzioni al programma, spiegazioni contestuali, percorsi tematici, cercando di rendere il tempo trascorso a concerto più coinvolgente, riaccendendo la curiosità del pubblico.
Dunque come dobbiamo sentirci? Sereni o preoccupati?
ANTONIO VALENTINO – Sono ragionevolmente sereno, e in parte anche ottimista. La musica da camera affronta difficoltà importanti, ma vedo anche segnali incoraggianti.
ANDREA LUCCHESINI – Anche io penso che sia giusto continuare a investire nella vitalità della musica da camera. I giovani musicisti ci credono, e sono sempre più bravi, preparati e fantasiosi.
FULVIA DE COLLE – E poi le statistiche mostrano una crescita degli studenti di strumento, nei Conservatori; e questo mi rende fiduciosa.