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 2025  novembre 04 Martedì calendario

Il mio medico è intelligente

Meglio ChatGpt o il tuo dottore? A una domanda così diretta, le risposte di solito sono di due tipi: grande cautela o scetticismo: «È di grande aiuto, però...», «non potrà mai competere con la mente umana», «non ci sono adeguate garanzie», «spesso sbaglia perché non è sottoposta a controlli rigorosi».
È proprio così? Vediamo.
Che l’intelligenza artificiale (IA) possa sbagliare è fuor di dubbio, ma dovremmo chiederci: «Sbaglia rispetto a cosa?». Il tuo dottore tante volte è nel giusto e di solito ti sa aiutare, e già questo, data la complessità della medicina di oggi, fa piuttosto impressione. Ma non dimentichiamo che in questo campo si pubblica un articolo ogni 39 secondi; solo per scorrere il riassunto ci vorrebbero 22 ore, e lo si dovrebbe fare ogni giorno. Si può chiedere alla mente umana di fare questo? Forse vi sorprenderà, o forse no, che ogni anno al mondo ci sono 134 milioni di eventi avversi legati a errori medici – del singolo o dell’organizzazione – che vuol dire 2,6 milioni di morti evitabili che fanno 7.000 morti al giorno.
Così quando si parla di intelligenza artificiale il punto non è chiedersi se può sbagliare. Certo che l’intelligenza artificiale può sbagliare, ma sbaglia più o meno dei medici? Diciamo subito, senza giri di parole, che l’intelligenza artificiale oggi supera il medico nel ragionamento clinico, non solo per le cose semplici ma, ancora di più, quando si è di fronte a casi difficili. Come lo sappiamo? MAI-DxO (acronimo di Microsoft AI Diagnostic Orchestrator) ha confrontato la capacità dell’intelligenza artificiale di risolvere casi clinici complessi, quelli che vengono presentati ogni due mesi ai lettori del «New England Journal of Medicine», rispetto a quanto sapevano fare i medici: l’intelligenza artificiale ha diagnosticato correttamente l’85,5 percento di questi casi, i medici solo il 20 percento. E ancora, un lavoro pubblicato su «Nature» fa vedere che, partendo dalle immagini, l’intelligenza artificiale sa diagnosticare malattie della pelle prima e meglio dei dermatologi, perlomeno di quelli che hanno preso parte allo studio. Possibile? Sì, e i più lungimiranti di noi se lo aspettavano anche. Sono passati più di cinquant’anni da quando Robert Schwartz in Medicine and computer: the promise and problem of changes scriveva: «La scienza del computer cambierà il modo con cui si pratica la medicina e la si insegna, a questo punto si dovrà ripensare al ruolo del medico». Se Bob Schwartz, medico e scienziato di valore immenso, è stato capace di immaginare i vantaggi dell’intelligenza artificiale addirittura prima che ci fosse, perché i dottori di oggi hanno paura? È la «difesa dell’ortodossia del camice bianco» scrive Ivan Illich: molti medici sono convinti che la strada giusta sia continuare a fare quello che hanno sempre fatto, «è la prova di quanto siamo bravi», dicono.
Davvero? Forse, o forse no: una volta c’era qualche conoscenza sulle cause delle malattie e soprattutto «l’esperienza del medico», cioè aver visto altri casi simili e cercare di ricordarsi chi, in seguito a quale cura, stava meglio o era guarito e chi no. Poi sono venuti gli studi clinici controllati e poi la medicina dell’evidenza, che dovrebbero stabilire l’efficacia o meno di farmaci e procedure. Peccato che i medici, quando va bene, vi si attengono con grande ritardo e comunque lo fa solo qualcuno. Insomma, c’è sempre un che di personale nel nostro lavoro, e perfino di romantico; ma proviamo per un attimo a lasciare i pregiudizi e guardare la realtà, non la realtà dei dottori, ma quella che vivono ogni giorno gli ammalati.
Nel bellissimo libro Dr. Bot Charlotte Blease racconta la storia di Sara: ha il Parkinson e incontra il suo neurologo per un’ora in tutto all’anno, per le 8.759 ore che rimangono fa da sola con... ChatGpt. E poi, la malattia si può presentare in forme diverse e chi ti cura, al di là dei sintomi, dovrebbe tener conto, per esempio, del fumo, se bevi e quanto, e se mangi come si dovrebbe, che vita sociale hai o quanto tempo passi da solo, o fuori città nel verde, quanta attività fisica fai e quanto dormi e tanto d’altro; insomma, come sei tu nella tua vita di tutti i giorni, fuori dallo studio del medico. Si può pretendere che il dottore, che è sempre di corsa, tenga presente tutto questo? E che lo faccia per tutti quelli che si rivolgono a lui? No, e forse non ce n’è neppure bisogno perché il telefonino, che hai quasi sempre in tasca, tutte queste cose le sa e sarebbe sciocco non approfittarne.
In uno studio recente che prende in esame i post (migliaia) di tanti ammalati, i ricercatori hanno dimostrato che si sarebbe potuto far diagnosi di depressione molto prima che ci arrivasse il medico. E ancora, lo sapevate che almeno la metà di coloro che poi si suicidano hanno avuto contatti con medici o assistenti sociali nei mesi o nelle settimane precedenti? Eppure non sembra che questo abbia influito in modo apprezzabile sulla loro decisione. Al contrario, l’IA è stata in grado di prevedere chi si sarebbe suicidato con due anni e mezzo di anticipo.
Ma allora il medico non serve più? Tutt’altro, tenendo conto delle informazioni che gli fornisce l’intelligenza artificiale, il medico può capire quando le cose si stanno mettendo male e quando è il caso di dedicare più tempo a un certo paziente. Inoltre c’è un campo in cui l’IA si rivela sempre più preziosa, ed è quello degli ammalati di malattie rare: come può un medico, per quanto bravo, riconoscere e saper trattare 7.000 malattie cui se ne aggiungono 250 o forse più ogni anno? E allora capita che il piccolo Lorenzo – non è il suo vero nome – con dolori muscolari diffusi, veda 17 specialisti in tre anni (pediatra, neurologo, dentista, internista, ortopedico, specialista di disturbi muscoloscheletrici...) ma nessuno capisca l’origine del dolore; finché la mamma, disperata, tenta anche l’ultima carta: affida le cartelle cliniche di Lorenzo a ChatGpt e in men che non si dica c’è la diagnosi e si scopre che c’è anche una cura. Adesso viene il momento degli specialisti, di cui c’è sicuramente bisogno, ma la diagnosi l’ha fatta l’intelligenza artificiale, che in più non giudica, non discrimina, non disprezza. Fra l’altro, l’intelligenza artificiale sta migliorando e migliorerà sempre più il modo con cui si organizzano quello che i medici chiamano «trial clinici», gli studi, cioè, che servono per stabilire se il farmaco nuovo sia meglio di quello che c’era prima. Solo l’intelligenza artificiale può analizzare contemporaneamente dati genetici, biologici, chimici, clinici, e farlo in tempi ragionevoli; e questo è ancora più importante quando si devono analizzare grandi numeri e confronti fra popolazioni.
Per non parlare dell’impiego dell’intelligenza artificiale nelle aree più povere del mondo, proprio là dove i medici sono pochissimi e indaffaratissimi. Pensate a un ammalato che vive in un villaggio a centinaia di chilometri dal primo centro di salute o da un ospedale. Una volta per vedere un medico e sapere cosa c’è che non va, erano giorni di viaggio; adesso la diagnosi la fa ChatGpt e il medico lo puoi consultare a distanza.
Prima di scrivere queste righe ho sentito qualche medico. C’è chi ha reagito pressappoco così: «Ci stai dicendo che è ora che togliamo il camice, che abbandoniamo lo stetoscopio e che passiamo la mano? Che non ci sarà più bisogno di noi? Che è meglio se ci troviamo un altro lavoro?». No, affatto, vi basti pensare che Eric Topol, uno dei dottori più influenti al mondo, a questo proposito ha scritto: «I medici dovranno certamente cambiare il modo di lavorare, ma non lo perderanno il lavoro, anzi: finirà per esserci una forma di simbiosi fra loro e l’intelligenza artificiale». E c’è qualcosa che l’intelligenza artificiale non può dare, o perlomeno non ancora: è quello che gli anglosassoni chiamano «the soft aspect of care», che vuol dire stare vicino agli ammalati più di quanto non succeda oggi, ascoltarli, informarsi di tutto quello che sta intorno (chi gli fa compagnia, quanti nipoti hanno, se praticano qualche sport, se hanno passione per la musica o per il teatro...) al di fuori della malattia. Per fare un esempio, quando in ospedale si fa il cosiddetto «giro», l’ammalato che hai di fronte vorrebbe chiederti tante cose, ma non c’è tempo e c’è l’emozione. Alla fine non ti chiede nulla. «Sarà per un’altra volta», se capita. No, non sarà più per un’altra volta, d’ora in poi il tempo che ci fa risparmiare l’intelligenza artificiale lo potremmo dedicare agli ammalati.
Gordon Schiff scrive sul «New England Journal of Medicine»: «I medici sono sempre più presi e l’intelligenza artificiale è ormai uno tsunami unstoppable, cioè non lo fermiamo più, non c’è modo di tornare indietro, ma i determinanti sociali della malattia, la conversazione con i nostri ammalati, la complicità che certe volte hanno con noi e soltanto con noi sono cose uniche. Vero, verissimo, ma per anni le abbiamo trascurate, dobbiamo riconquistarle, se no rischiamo di perderle».
Allora dovrà cambiare completamente anche il modo di insegnare la medicina? Certamente, che senso ha chiedere ancora ai futuri medici di mandare a memoria i nomi dei muscoli dei piedi o dei nervi cranici, e di come sono fatti e dove passano e chi incontrano; per non parlare degli enzimi della glicolisi, che non finiscono più. Piuttosto i giovani medici dovranno sapersi rapportare con l’intelligenza artificiale, conoscerne vantaggi e limiti, per loro e per i loro ammalati.
La medicina di domani, che lo vogliamo o no, sarà guidata dagli algoritmi con cui i medici dovranno familiarizzare e trovare persino il modo di interagire con chi li crea (è per proteggersi dal rischio scatola-nera: IA ti dà la soluzione, ma sul percorso che segue per arrivare al risultato non abbiamo ancora le idee chiare). Chi ci riuscirà davvero avrà a disposizione strumenti capaci di rivoluzionare il modo di prevenire, diagnosticare e curare le malattie, e per gli ammalati sarà tutto più facile. Insomma, cosa dovranno imparare i dottori di domani è abbastanza chiaro, il problema sarà trovare chi è in grado di insegnarglielo.