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 2025  novembre 04 Martedì calendario

E Trump inventa l’Arc de Trump

Novembre 2024. L’architetto Nicolas Leo Charbonneau, specializzato nella creazione di edifici religiosi, in un’intervista al «Catholic Herald» invita ad attenersi a principi estetici «in linea con l’insegnamento della Chiesa cattolica». 4 settembre 2025. Sui social, Charbonneau posta un messaggio: «L’America ha bisogno di un arco di trionfo!». Un’affermazione non priva di retorica, accompagnata con la fotografia di una statua alata della Vittoria affiancata da due aquile. Infine, lo scorso 15 ottobre. Durante un incontro nello Studio Ovale della Casa Bianca, Donald Trump presenta un importante progetto «imperiale»: le maquette di un arco di trionfo sovrastato da una Nike dorata, concepito da Charbonneau, da erigere a Washington il prossimo anno, per commemorare il 250° anniversario dell’indipendenza americana: di fronte al Lincoln Memorial, per accogliere i visitatori del Cimitero nazionale di Arlington.
Anche se ufficialmente ribattezzato Arco dell’Indipendenza, il soprannome «Arc de Trump» si è imposto subito, per l’evidente somiglianza con l’Arco di Trionfo di Parigi. Una sorta di manifesto del superomismo coltivato da Trump. E, insieme, una trasposizione plastica della sua idea di politica dominata dal culto dell’Io. Una provocazione vanagloriosa? L’ennesima trovata di un presidente che ama frequentare i territori del kitsch, senza nascondere arroganze, contraddizioni e intemperanze? La questione è più complessa. In contrasto con la politica anti-europeista che sta segnando il suo governo, analogamente a molti suoi predecessori, Trump si mostra sensibile al fascino della cultura del Vecchio Continente. Si tratta di un’inclinazione ricorrente nella storia degli Stati Uniti. Si ricordi un episodio sorprendente. Nel 1886, lo scultore Frédéric-Auguste Bartholdi disegnò e costruì, con la collaborazione di Gustave Eiffel, la Statua della Libertà nella baia di Manhattan. Una figura ispirata all’Allegoria dell’Italia di Valentin de Boulogne (1628 circa). In Trump c’è qualcosa di Cicero, l’architetto conservatore attivo nella Roma imperiale al centro dell’ambizioso e visionario Megalopolis di Francis Ford Coppola, riscrittura, su un registro distopico, della Congiura di Catilina. In involontaria consonanza con questo personaggio, con i suoi inconfondibili modi «barbarici» e anti-ideologici, il proprietario della Trump Tower immagina sé stesso come erede degli imperatori e dei generali romani.
In questa direzione vanno lette tante azioni da lui intraprese e annunciate nel primo anno del suo secondo mandato: la parata militare organizzata per il compleanno, densa di assonanze con i trionfi romani; e la proposta di coniare monete da 1 dollaro con il suo volto, per l’imminente 250° anniversario della nazione, in contrasto con il Coin Act, che vieta a una persona in vita di apparire su titoli e su banconote. Il rimando più inquietante, però, è un altro. Trump sembra «mimare» il Grande Dittatore chapliniano: Hitler aveva affidato al «suo» architetto, Albert Speer, l’incarico di trasformare Berlino in una capitale mondiale monumentale, chiamata «Welthauptstadt Germania», d’impronta neoclassica.
Quest’ombra nera si allunga sull’«Arc» di Washington. Proprio come Hitler, anche Trump vuole riattivare qui soluzioni e artifici cari al neoclassicismo. In consonanza con l’estetica anacronista, aderisce a una visione «disneyana» del mondo antico, che svuota di ogni senso del tragico. Sceglie, perciò, un progettista come Charbonneau, abile nell’offrire calchi e plagi; disinvolto nel trattare citazioni colte come brani da riportare nella loro interezza, senza filtri; esperto nello sfruttare imponenti e solenni stilemi «originari» in chiave trash; impegnato a imporre una bellezza patinata, enfatica, impersonale, senz’anima, indifferente all’apocalisse che stiamo attraversando.
Diretta conseguenza di questa filosofia è la necessità di uscire dalla modernità, attingendo a uno tra gli archetipi architettonici maggiormente sfruttati nell’Urbe: l’arco di trionfo, appunto. Diffusosi ampiamente a ogni latitudine, questo motivo ha uno specifico carattere votivo e commemorativo: è un simbolo che serve per celebrare la supremazia militare dell’Impero e la sottomissione delle province; e per «fermare» un imperatore e una vittoria militare. È come una soglia che personifica il mito di Giano. Bifronte e benevolo, l’arco serve a collegare uno spazio interno con uno intero. Una forma semplice e aperta che, come aveva scritto il filosofo Otto Weininger in Delle cose ultime (1904), a differenza della curva, non rappresenta una «sazietà completa, inattaccabile» ma, avvolta in un’aura favolosa e misteriosa, evoca la «non invertibilità della vita», l’«irreversibilità del tempo».
Nei secoli, l’arco di trionfo ha conservato una notevole carica seduttiva. Con finalità e timbri diversi, imperatori, dittatori e capi di Stato si sono appropriati di questa struttura primaria. L’hanno reinventata. L’hanno riesumata come pura oratoria scolpita, come fanfara da combattimento, simile a un’ode di Victor Hugo tradotta in pietra. Un modo per consegnare all’eternità gesta e situazioni legate a un preciso momento storico. E per dare un volto «assoluto» al Potere.
Sono intenzioni che ritroviamo in tante versioni. Innanzitutto, l’Arco di Trionfo di Parigi innalzato per volere di Napoleone, che riprende l’Arco di Tito e l’Arco di Costantino di Roma. E, poi, molte altre declinazioni di quel modello: ancora a Parigi (la Grande Arche, nel quartiere finanziario della Défense), a Bucarest, a Vác (in Ungheria), a Mosca, a Ottawa, a New Delhi, a Canton, a Pyongyang, a Città del Messico, a Banjul (in Gambia), ad Accra (in Ghana). Patria di questa moda sono proprio gli Stati Uniti. Dalla metà del XIX secolo, si costruiscono un po’ ovunque archi dedicati a politici, a veterani, alla pace. Il più famoso è il Washington Square Arch, nel cuore del Greenwich Village di New York, edificato nel 1892 per il centenario di George Washington. E, poi: il Soldiers and Sailors Memorial Arch nella Grand Army Plaza della Grande Mela; il Millennium Gate Museum di Atlanta, remake dell’Arco di Tito; e il Monumental Arch a Galveston (in Texas).
Ed ecco, ora, l’arco di trionfo di Washington, non troppo diverso da tante architetture-feticci che costellano il paesaggio artificiale di Las Vegas. Una solenne trophy architecture che farà discutere e susciterà dure reazioni. Non è difficile prevedere che, in un futuro non troppo lontano, l’Arch Tower verrà investito dalla medesima furia iconoclasta di cui sono state vittime, in diverse parti del mondo, tante statue di controversi personaggi. Siamo dinanzi all’ultimo anello di una lunga vicenda, pensato da un uomo privo di ogni tensione morale, orgoglioso nel farsi interprete di un unicum nella parabola degli Usa: non solennizzare ideali né eroi, ma situare un singolo individuo vivente su un piano «intemporale». Interprete del cesarismo postmoderno, Trump ha un’ambizione chiara: dare voce a una concezione autocratica della politica. Il suo sogno, pericolosamente affine a quello di tanti monarchi e dittatori: non rivedere il passato in un’ottica revisionista, ma lavorare oggi per la Storia. Dunque, uscire dall’attualità, per iscrivere sé stesso nel Pantheon degli Stati Uniti. Senza tener conto, però, di quel che, spesso, durante le parate, veniva ripetuto ai generali romani trionfanti: «Memento mori»: ricorda che sei un uomo e non una divinità.