il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2025
Il rapporto di Tax Justice Network: Italia rapinata dai paradisi fiscali. Saccheggio da 22 miliardi
Tra il 2016 e il 2021 l’Italia ha perso 22,3 miliardi di dollari di tasse che sarebbero dovute entrare nelle casse pubbliche. Soldi rimasti invece nei bilanci di grandi multinazionali che hanno registrato i propri profitti in Paesi dove le imposte sono più leggere: non solo Irlanda, Paesi Bassi e Lussemburgo, ma anche – e per una fetta importante – Stati Uniti. Il nuovo rapporto State of Tax Justice 2025 di Tax Justice Network, rete internazionale che da anni analizza l’elusione delle imprese e dei super-ricchi, aggiorna le stime sul costo globale degli abusi delle grandi imprese. E arriva alla conclusione che il mancato gettito sia ammontato solo in quei sei anni all’astronomica cifra di 1.700 miliardi di dollari, poco meno del Pil della Spagna, di cui 495 miliardi (il 29% del totale) per effetto delle strategie fiscali delle sole multinazionali statunitensi. Soldi che avrebbero potuto essere utilizzati per finanziare sanità, istruzione e altri servizi pubblici.
La vera sorpresa di questa edizione del rapporto arriva dagli Stati Uniti, che secondo Tjn dopo la prima presidenza di Donald Trump si sono trasformati in un nuovo “paradiso” per le multinazionali. Diventando il principale polo globale di attrazione dei profitti sottratti a tassazione nei Paesi dove vengono davvero generati. Dopo il Tax Cuts and Jobs Act del 2017, che ha tra l’altro ridotto l’imposta federale sulle società, Washington è diventata un rifugio fiscale per le proprie multinazionali e per molte imprese straniere. Tra il 2016 e il 2024 i profitti dichiarati dalle corporation statunitensi in patria sono cresciuti del 69%, ma le imposte effettivamente versate sono diminuite del 14%. In valore assoluto, significa 45 miliardi di dollari di tasse in meno. Il motivo? Nello stesso periodo l’aliquota media effettiva sulle imprese Usa è crollata, in patria, dal 32,7 al 20,8%. Per i colossi tecnologici i vantaggi sono stati ancora più marcati: Apple ha visto scendere l’imposizione dal 66,8 all’8,5%, Meta dal 33,5 all’8,4%, Google dal 31,2 al 15,9%, Amazon dal 31,4 al 10,6%.
Nel frattempo, tutte le aziende Usa hanno registrato mediamente molti meno profitti nelle tradizionali giurisdizioni a bassa imposizione. A perderci sono stati i paradisi fiscali più noti, dal Lussemburgo a Bermuda, Porto Rico e Paesi Bassi. Mentre gli Usa sono diventati la terza destinazione preferita per le proprie stesse multinazionali in cerca di un rifugio sicuro dalle tasse. Dopo Irlanda e Gibilterra e prima di Singapore, Isole Cayman e Svizzera.
Il secondo mandato di Trump ha segnato un ulteriore passo indietro, con la Casa Bianca impegnata a ostacolare ogni tentativo di altri Paesi di tassare equamente i profitti delle multinazionali statunitensi. Washington ha rinnegato l’accordo Ocse sulla tassazione minima delle multinazionali faticosamente raggiunto nel 2021 e ha minacciato ritorsioni commerciali contro gli Stati che applicano imposte sui servizi digitali.
Paradossalmente, stando all’analisi di Tjn gli Usa sono anche il singolo Paese più danneggiato dalle politiche trumpiane. Tra il 2016 e il 2022, il Tesoro americano ha perso ben 574 miliardi di dollari di entrate fiscali. Nel Vecchio continente i Paesi maggiormente colpiti dagli abusi delle grandi imprese sono invece Francia (116,8 miliardi) e Germania (109,9 miliardi), seguite da Belgio (76,9), Regno Unito (53,5), Lussemburgo (50,8) e Spagna (33). L’Italia, con 22,3 miliardi di dollari di gettito sfumato nel periodo 2016-2021, si colloca a metà classifica prima di Paesi Bassi (20,8) e Svezia (11,3). Fuori dall’Europa, i danni maggiori si concentrano nelle economie emergenti o avanzate in cui le multinazionali straniere sono molto presenti: India (88,4 miliardi), Australia (47,7), Messico (45,4), Brasile (38,7), Filippine (20,6 miliardi). La classifica cambia se, come ha fatto Tax Justice Network, si parametrano le perdite alle risorse destinate da ogni Paese alla spesa sanitaria in quei sei anni: in Belgio le entrate sottratte equivalgono a quasi il 30% della spesa per la sanità pubblica, in Spagna al 5,7%, in Francia all’8,3%, in Italia a circa il 2,7%. Nei paesi a basso reddito, i soldi che sfuggono al fisco ogni anno basterebbero per coprire programmi sanitari universali o vaccinali.
Il rapporto indaga anche sulle cause dell’enorme saccheggio, che non si limitano alle scelte statunitensi. Cruciale è stata la decisione politica di limitare la trasparenza su profitti e ricavi registrati, dipendenti impiegati e imposte pagate dai grandi gruppi negli Stati in cui operano. Dal 2016 le imprese comunicano quei dati alle autorità fiscali nazionali, ma in base all’accordo raggiunto in sede Ocse i report sono anonimizzati e i governi non possono pubblicarli integralmente. Solo l’Australia ha annunciato la creazione di un registro pubblico centralizzato. L’Ue ha introdotto l’obbligo di rendicontazione l’anno scorso, ma si accontenta della pubblicazione dei dati relativi ai Paesi dell’Unione, mentre per il resto del mondo le multinazionali possono limitarsi a un totale aggregato. Washington, che non partecipa nemmeno allo scambio multilaterale dei dati tra autorità fiscali, ha poi fatto muro da ben prima che alla Casa Bianca arrivasse Trump: fin dal 2013, quando il G8 ha affidato all’Ocse il compito di elaborare lo standard, hanno spinto perché le informazioni restassero confidenziali. Il che fa venir meno lo scopo originario: permettere a stampa e opinione pubblica di sapere quante tasse paga ogni multinazionale in ciascun Paese.
Tax Justice Network individua una possibile via d’uscita nella nuova Convenzione delle Nazioni Unite sulla cooperazione fiscale, su cui sono in corso negoziati preliminari. L’obiettivo è creare un sistema in cui i profitti delle multinazionali siano tassati nei Paesi dove si genera l’attività reale, non dove vengono registrati per motivi contabili. Se nella futura convenzione fosse inserita la rendicontazione pubblica Paese per Paese, calcola TJN, i governi mondiali potrebbero recuperare 475 miliardi di dollari l’anno. I benefici maggiori in valori assoluti li otterrebbero Ue e Usa, ma in proporzione alle entrate fiscali attuali i guadagni maggiori andrebbero ai Paesi del G77, cioè alle economie emergenti e in via di sviluppo. Lo scorso dicembre gli Stati Uniti, insieme ad Argentina, Australia, Canada, Giappone, Gran Bretagna, Israele e Sud Corea hanno votato contro l’avvio dei negoziati per arrivare a una convenzione quadro. L’Italia, come tutti i membri dell’Ue, si è astenuta.
“Il mondo è a un bivio”, è il commento di Alex Cobham, direttore di Tax Justice Network. “Da un lato c’è la sottomissione fiscale a Trump e alle multinazionali statunitensi, dall’altro la difesa collettiva della sovranità fiscale all’Onu, che tuteli il diritto di ogni Paese a riscuotere le proprie tasse. Stiamo subendo un saccheggio di proporzioni catastrofiche: non più vichinghi o conquistadores che razziano villaggi, ma corporation americane che svuotano silenziosamente i nostri bilanci, compreso quello degli Stati Uniti stessi. Ogni insegnante licenziato, ogni infermiera a cui è negato un aumento, ogni lavoratore a cui si chiedono più tasse in nome dei “conti in ordine” dovrebbe indignarsi per questa resa fiscale durata decenni”.