la Repubblica, 4 novembre 2025
Liberaci dall’ansia di sapere come va a finire
Credevamo di vivere in un’epoca inaugurata da un paio di punti esclamativi ben assestati da Kant: «Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo è il motto dell’illuminismo», e invece no, niente coraggio e nessuna voglia di servirsi della propria intelligenza: sei davanti a un bel film, e anche se le palpebre non si sono abbassate e la trama ti ha tenuto incollato alla poltrona, non sei sicurissimo di aver capito le cose – quel personaggio che fine ha fatto? Perché poi Tizio ha lasciato Caio? –, quindi mano al telefonino ed eccoti servita, già pronta all’uso, la «spiegazione del finale di». E questo vale sia che tu abbia scelto il cinema d’essai, e forse qualche scusante ce l’hai, sia, invece, che tu abbia portato i tuoi figli a vedere il film campione di incassi perché, ebbene sì, in rete c’è anche la spiegazione del finale di Lilo & Stitch. Le spiegazioni, insomma, impazzano ovunque, in un tempo che forse si lascia definire meglio come l’età dei tutorial, dell’assistente intelligente e dell’immancabile: «in cosa posso esserti utile?».
(Siccome quest’anno cadono i cent’anni de La corazzata Potëmkin, uno dei grandi capolavori del cinema sovietico ma anche la «cagata pazzesca» di Fantozzi, ho controllato e, salvo errori, il film resiste: salvo la servizievole risposta dell’IA, che ti viene comunque incontro, in rete trovi pagine critiche, analisi filmiche, stellette classifiche e saggi storici, ma pagine rubricate come comode spiegazioni del finale del film di Ėjzenštejn ancora no).
Torniamo però a Kant, alla celebre risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?», consegnata a un saggio di due secoli e mezzo fa. Che comincia così: «L’illuminismo è l’uscita dell’essere umano dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro». Prendiamo per buona questa definizione. Orbene, quando, invece di pensare con la nostra testa, lasciamo che sia un altro a guidarci, spiegandoci il finale del film, dovremo dire, giuste le parole di Kant, che non stiamo facendo nulla di diverso dal regredire a uno stato di minorità, regresso non ad altri imputabile che a noi stessi. È forse il caso, allora, di rispolverare la Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer e fare di questo rovesciamento un altro esempio della «trionfale sventura» che si abbatte sulla terra «interamente rischiarata» dai lumi del progresso, della ragione strumentale?
Sophie McBain, in un lungo articolo sul Guardian di un paio di settimane fa, si chiedeva in effetti se, grazie ai nuovi strumenti della rete, ai computer e all’IA, non stiamo ormai entrando nell’età d’oro della stupidità: se fan tutto loro, che cosa resta da fare a noi? Fior di scienziati si sono applicati al problema. McBain cita l’esperimento condotto da Nataliya Kosmyna, del prestigiosissimo Mit di Cambridge (Usa), nel corso del quale veniva monitorato il funzionamento cerebrale di persone impegnate a scrivere articoli sia con che senza assistenza digitale, sia con che senza l’aiuto di un motore di ricerca o di ChatGPT. Kosmyna ha scoperto che maggiore era l’aiuto esterno, minore era il livello di connettività cerebrale.
Ma tu guarda: «Coloro che utilizzavano ChatGPT per scrivere mostravano un’attività significativamente inferiore nelle reti cerebrali associate all’elaborazione cognitiva, all’attenzione e alla creatività». A ben vedere, è come sorprendersi del fatto che pensiamo meno, o non pensiamo affatto, quando chiediamo alla calcolatrice di fare una moltiplicazione al posto nostro. Mi permetto di dire: stiamo davvero entrando in una nuova era della stupidità, se occorre scomodare il Mit per fare simili scoperte.
Il fatto è che la capacità della tecnica di sostituirci in una serie di operazioni – quella che Arnold Gehlen e l’antropologia filosofica di primo Novecento chiamava la funzione di esonero – non data dall’avvento dei computer, ma casomai dall’invenzione della ruota. Possiamo anche complicare la cosa, e ricorrere al concetto di «supplemento» impiegato da Jacques Derrida. Il supplemento non è solo qualcosa in più, ma anche qualcosa che sostituisce (supplementa, appunto, interviene a supplenza), ed è proprio questo il modo in cui la tecnica interviene: fa al caso nostro e risolve problemi (aprendone di nuovi), ma fa anche, comodamente, al posto nostro.
Il problema sono però i punti esclamativi di Kant: a meritarseli, infatti, non è tanto il sapere – l’illuminismo non è semplicemente un incremento di conoscenza –, bensì il coraggio, la forza richiesta per superare la viltà e la pigrizia (Kant la chiamava anche ignava ratio). È quella che davvero ci vuole, ed è quella che a volte ci manca: non una mera dote intellettuale, ma un carattere morale e, anche, una condizione politica.
A preoccuparci non può essere un supposto calo del quoziente di intelligenza, ma, semmai, gli effetti che può avere sulla sfera sociale e pubblica la minore rivendicazione dell’autonomia di pensiero. L’uso pubblico della ragione, per dirla ancora con Kant, è perciò lo stato di salute non dell’uomo e del suo cervello, ma del cittadino e della sua libertà.
Infine, c’è anche un problema critico: se infatti aveva ragione Walter Benjamin nell’invitare a cercare, in ogni vera opera d’arte, l’Ausdrucklose, quel che resiste all’espressione, quel che non vuol risolversi nella facilità dell’apparenza estetica, che fine fa questo grumo scomodo, questa alterità inassimilabile nella spiegazione che ogni volta deve filare liscia, piana e arrendevole come un contenuto “ad alta digeribilità”? Che fine fa l’indigesto?
A ben vedere, però, anche questo è un problema morale, più che estetico. Perché colloca l’obbligo verso la verità ben oltre il piacevole soddisfacimento dei sensi, e chiede di perseguirlo costi quel che costi. Costi dunque anche la fatica di impegnarcisi da soli.