Corriere della Sera, 4 novembre 2025
Intervista a Giovanni Grasso
Giovanni Grasso, giornalista, scrittore, autore di teatro. Aveva qualcuno in famiglia, parenti vicini o lontani, che faceva i giornalisti o gli scrittori?
«Da questo punto di vista sono una “pecora nera” – risponde il portavoce e consigliere per la comunicazione del presidente Sergio Mattarella —. I miei genitori erano medici, nella famiglia materna c’erano molti avvocati. Ho ereditato, senza merito alcuno, i preziosi libri di legge del nonno. Ma mio figlio Jacopo si è appena laureato in giurisprudenza. Ci ha pensato lui a ricollegare i fili spezzati».
Walter Mauro, eminente critico letterario, è stato il suo professore di italiano al liceo classico San Leone Magno. Si può definire una sorta di padre della sua vita culturale? Senza Mauro non avrebbe fatto il giornalista?
«Sì, esattamente. Mi iscrissi alla facoltà di Lettere a causa sua. Ma ci ha trasmesso l’amore, la passione per la letteratura, la musica e, soprattutto, per l’impegno civile, per la democrazia, per la libertà. Erano tempi duri, violenti. Bastava niente, una compagnia sbagliata, e si finiva con una pistola in mano o una siringa nel braccio. La cultura era un argine. Durante le lezioni parlavamo di tutto: da Dante a Kafka, dal dissenso in Russia ai desaparecidos argentini. Esercitava un fascino incredibile su di noi. E così, a 16-17 anni, giravamo con i quotidiani sotto il braccio, ci struggevamo con le poesie di Vinicius de Moraes e i film di Truffaut e facevamo attività con Amnesty International. Mi rendo conto solo ora di quanto, con la nostra aria di intellettuali-baby, riuscivamo insopportabili agli occhi degli altri compagni».
L’amore per il teatro invece da dove nasce?
«Il mio gioco preferito da bambino era il teatrino delle marionette. Ricordo la mia prima volta a teatro: Una lettera per mammà con Peppino De Filippo. Poi, ai lupetti presi la specialità di “attore”. Ho consumato sabati e domeniche nei loggioni dei teatri romani e nel 1980 scrissi un piccolo dramma sull’assassinio di mons. Romero in Salvador. Andò in scena, una sola volta. Il professor Mauro commentò così: “Troppo retorico”».
Oltre a Mauro ha avuto altri maestri?
«Certo... e, per fortuna, non si finisce mai di incontrarne. Ho cominciato a scrivere giovanissimo per Il Popolo, La Discussione e Avvenire, ho incontrato personalità indimenticabili, che mi hanno dedicato il loro tempo e onorato della loro benevolenza: Gabriele De Rosa, Leopoldo Elia, Roberto Ruffilli (ucciso dai terroristi rossi nel 1988, ndr) e tantissimi altri... A quei tempi i saggi anziani si dedicavano con grande passione ai giovani. Oggi non mi pare sia sempre così».
Lei è nato a Roma, ma ha origini siciliane da parte di madre e di padre. Quanto ha influito la sicilianità nel suo modo di essere?
«Da piccolo non mi piaceva nulla della Sicilia, l’atmosfera, il cibo, il dialetto cantilenante, le zie vestite perennemente a lutto. Adoravo la nonna catanese, ma vivevo le visite annuali come una deportazione, come un sequestro da parte degli alieni. Poi dopo il liceo mi sono ricreduto e ora in Sicilia mi sento a casa, lì sono le mie radici profonde, il mio Dna. Due grandi e diverse personalità isolane mi aiutarono a fare pace con la Sicilia: don Luigi Sturzo e Luigi Pirandello».
A 18 anni ha perso suo padre...
«Era un uomo complicato, aveva avuto un’infanzia segnata da un trauma grave, che l’aveva portato a elaborare una visione deformata, ostile e persecutoria, del mondo che aveva attorno a sé. Ma nonostante questo percepivo uno sconfinato amore nei miei confronti».
Suo padre si è suicidato. Pensa di aver fatto i conti con la sua drammatica perdita?
«Ho parlato di mio padre in uno dei miei romanzi, ma l’ho raccontato in terza persona. Non è così facile quando il tema lo affronto direttamente. Credo comunque che quel gesto estremo sia il risultato di una psiche obnubilata e di un atto d’amore nei miei confronti: temeva di finire in prigione, a causa di un errore in una perizia medico-legale, rischio che non esisteva minimamente. Ma, se fosse mai accaduto, voleva risparmiarmi questa vergogna».
Nel suo romanzo c’è un prete che non vuole celebrare i funerali del padre del protagonista perché suicida. È andata davvero così?
«Un frate cappuccino mi disse bruscamente di cercarmi un’altra chiesa, perché la Basilica di San Lorenzo al Verano era troppo solenne per quei funerali. Fui però accolto con grande compassione da un padre servita nella vicina parrocchia dei Sette Santi Fondatori. Questo per dire che la Chiesa è grande e i carismi numerosi...».
L’aver vissuto una esperienza così l’ha fatto diventare subito adulto a 18 anni. Le manca un po’ la giovinezza spensierata?
«Non posso dire di aver vissuto una giovinezza del tutto spensierata, nel senso che le vicende familiari – ma anche quelle legate al contesto storico, erano gli Anni di Piombo – hanno fatto sentire il loro peso. Il 1980, l’anno prima della maturità, si aprì con l’uccisione di Piersanti Mattarella, poi toccò a Vittorio Bachelet. In agosto la strage di Bologna... Però non posso nemmeno sostenere di non essermi divertito, nonostante tutto. Avevo tanti amici e dei compagni di classe straordinari, ancora oggi ci incontriamo e ci ricordiamo degli scherzi e delle zingarate compiute».
Gli Anni di Piombo. Che cosa ricorda?
«Nel 1978, con il rapimento di Aldo Moro, Roma era sotto assedio. Il terrorismo mieteva vittime quasi ogni giorno. L’atmosfera era cupa. Anche tra i giovani si respirava tanta violenza. Una volta mi esplose una molotov a pochi passi di distanza. Un’altra volta mi arrivò un pugno in faccia, avevo violato un territorio proibito. Poi c’erano le bande che si imbucavano in massa alle feste, spaccando e rubando tutto... Il confine tra estremismo politico e bullismo, specie a destra, era labile. Io militavo nelle organizzazioni cattoliche e il rischio che correvo era di prenderle dai neri e dai rossi. Un paio di volte sono stato minacciato. Mi è andata bene. Alcuni ragazzi della mia età sono morti ammazzati o hanno ammazzato. Erano pochi, ma era ovvio che facessero scalpore...».
E che cosa pensa di ciò che è successo?
«Che sono state delle morti stupide, insensate, accecate da un odio che non portava da nessuna parte. Si parla molto dei protagonisti di quella stagione di sangue che, talvolta, tendono a legittimarsi tra loro. Mi piacerebbe sentire anche parole di attenzione nei confronti di quei ragazzi, la maggioranza, che non accettavano la logica della violenza e che, per questo, erano insultati, picchiati o accusati di codardia».
Lei ha studiato, molti anni dopo, nello stesso liceo del presidente Mattarella e dei suoi fratelli. Ha avuto gli stessi professori che ha avuto lui? Curiosa coincidenza...
«Seppi della notizia dell’uccisione di Piersanti Mattarella a scuola. Ce la comunicò, con le lacrime agli occhi, lo stesso professore di Filosofia che aveva insegnato a Piersanti e a Sergio Mattarella».
Difficile fare il portavoce del presidente?
«Ogni lavoro, se provi a farlo bene, è difficile. Cerco di farlo con impegno e con trasparenza, senza mai dimenticare di essere giornalista anche io. Certo, non devo cercare più le notizie, ma spiegarle e farle capire».
I romanzi hanno spesso una connessione con la sua vita privata?
«Dei quattro pubblicati finora, il quinto è in arrivo (Finché durerà la terra, ndr), uno solo, Il segreto del tenente Giardina, è ispirato a storie della mia famiglia. Ma credo che ogni cosa che uno scrive, immagina o ricorda, sia filtrata attraverso la propria esperienza e, in questo senso, è sempre autobiografica».
In una delle sue belle riflessioni, afferma: «Si possono amare gli altri senza amare Dio, ma non si può amare Dio senza amare gli altri».
«Molto meglio di me lo dice san Paolo: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, ossia l’amore, sarei un bronzo che suona a vuoto”».