Corriere della Sera, 31 ottobre 2025
Parla Marco Battisti, nipote di Cesare Battisti, figlio di Gigino Battisti
Suo nonno, Cesare, era quel Cesare, impiccato dagli austriaci nella fossa della Cervara, al Castello del Buonconsiglio, con l’accusa di alto tradimento.
Sua nonna, Ernesta, una delle prime donne laureate in lettere in Italia, scrisse le parole dell’Inno al Trentino («Si slancian nel cielo le guglie dentate, discendono dolci le verdi vallate…»), poi messe in musica dal maestro Guglielmo Bussoli, direttore della banda cittadina.
Sua zia, Livia, laureata in medicina e scienze naturali, in consiglio comunale come indipendente del Pci, dopo l’arresto del ginecologo Renzo Zorzi, sospettato di centinaia di aborti, mise a disposizione la casa del padre eroe al civico 136 di corso III Novembre «per tutte le donne che si troveranno implicate».
E poi c’è suo padre. Luigi. Detto Gigino. Nato a Trento il 7 aprile 1901. Volontario nell’esercito italiano a 17 anni, lo mandarono a combattere al passo del Tonale. Legionario a Fiume con Gabriele D’Annunzio. Socialista, d’un socialismo forse più mazziniano che marxista, di sicuro più riformista che anarchico o rivoluzionario. Antifascista della prima ora, benché Mussolini fosse stato collaboratore del giornale di famiglia. Fondatore di Italia Libera, che si occupava di far espatriare i trentini ostili al regime. Partigiano in Val d’Ossola. Sindaco di Trento dopo il 25 aprile, per nomina del Comitato di liberazione nazionale. Deputato alla Costituente, unico non democristiano nel collegio di Trento, assieme a Elsa Conci, Luigi Carbonari e Alcide De Gasperi. Stava preparando un discorso sulla necessità di due autonomie distinte per Trentino e Alto Adige, quando, il 14 dicembre 1946, morì in un incidente ferroviario a Sessa Aurunca, in provincia di Caserta.
«Ero bambino» mormora Marco Battisti, classe 1938, accogliendoti nel suo salotto pieno di libri, cimeli e statuette africane. I Battisti abitano proprio sopra la fossa dei Martiri, in una vecchia casa di pietra con le imposte verdi. «La costruì l’altro mio nonno, Ettore, muratore illetterato». La signora Amanda, la moglie, versa il caffè. E lui comincia a raccontare: «Sono nato a Milano. Papà era dirigente alla Montecatini. Abitavamo in via Domenichino 47. Noi al primo piano. Sopra di noi, la nonna e la zia Livia. Sopra ancora, lo zio Camillo, che studiava al Politecnico. Dal terrazzino vedevamo gli aerei americani che bombardavano la città».
E la fuga in Svizzera?
«Fu dopo l’8 settembre. Un’antifascista che lavorava in questura ci avvisò che i nostri nomi erano sulla lista degli oppositori da mandare nei campi. Noi eravamo sfollati a San Pellegrino. Papà venne a prenderci con un’auto un po’ bombée, non so più se un’Aprilia o una Lancia. Chiamò la mamma: “Enrica, hai dieci minuti di tempo per preparare una valigia”. Ah, ho un ricordo nitido di quel viaggio. L’autista fece solo strade secondarie per evitare i posti di blocco nazisti. Una giornata intera per arrivare alla frontiera. A Chiasso, il capo della dogana era dei nostri: e conosceva il collega svizzero… Ventura, si chiamava. Anche lui, tre anni dopo, morto a Sessa Aurunca».
Come seppe dell’incidente?
«Era domenica. Eravamo qui, in questa casa, a salutare i genitori di mia madre. Io e la Mimma, mia sorella, stavamo giocando in cortile. Arrivò l’auto del prefetto Giuseppe Ottolini, comunista, compagno di antifascismo di mio padre. Ottolini salì in casa, dopo cinque minuti discese con mia madre piangente. Non capivo cosa fosse successo. Poi ci hanno portato dentro, e ci hanno detto che papà non c’era più».
Cosa ricorda dei funerali?
«Funerali laici, devono essere stati i primi a Trento… Ricordo che la bara fu esposta al Teatro Sociale per giorni e giorni. Poi fu portata a spalle dai compagni socialisti, in corteo per tutta la città. Ricordo la folla immensa. Ricordo che era inverno. Una giornata triste. Nebbiosa».
Sui giornali dell’epoca i titoli erano tutti per sua nonna, che aveva perso prima il marito, e ora anche il figlio.
«Gigino era… non voglio dire “il figlio prediletto”: a tutti i figli si vuol bene allo stesso modo. Ma certo, in lui rivedeva il marito. La sua vocazione civica. L’impegno. La capacità di rischiare. Pensi che una volta, per aiutare degli antifascisti a espatriare, Gigino li accompagnò al passo Pordoi con l’alpinista Tita Piaz: finì con le mani assiderate. Gli amputarono in tutto o in parte otto dita. Usava delle protesi, metteva i guanti».
Non facevano impressione, a voi bambini, le dita amputate?
«No, assolutamente».
È vero che fece la luna di miele sorvegliato dai carabinieri?
«È vero, sì. Erano a Fai della Paganella. I miei erano su un sentiero, c’era un po’ di neve. I militari non avevano le scarpe adatte e scivolavano. Mio padre si avvicinò: “Non posso vedervi così. Vi prometto che non scappo. Aspettatemi qui”».
E di sua nonna, che ricordo ha?
«Dalla morte di Cesare, rimase sempre in lutto. Sempre vestita di nero. Con la veletta nera. Ci amava di un amore intenso. In noi vedeva la continuazione della famiglia. Siamo stati allevati dalla nonna, dalla zia Livia. E da mia mamma, che ebbe un ruolo fondamentale».
Cosa vi dicevano, in famiglia, di Mussolini?
«Mia nonna non lo sopportava. “Era un chiacchierone. Uno sbandato. Un donnaiolo”. Ma ne lodava le capacità giornalistiche. Era intelligente. Studiava. Lei ha letto gli articoli di Mussolini a Trento?».
Ho letto quello sulla bambina di Pergine che aveva visto la Madonna…
«Con lui Il Popolo, il giornale di Cesare, aveva venduto un sacco di copie. Abitava proprio qui sotto, sa? Dove via della Pontara sbuca su via Cervara. Aveva una morosa. I miei mi indicavano la casa. “Vedi Marco, Benito abitava qui”».
Non abitava a Piedicastello?
«Può essere. Di morose ne aveva mille. Abitava un po’ dappertutto».
Insomma, uno sregolato.
«Uno sregolato. Sì. È la parola giusta».
Per anni il fascismo tentò di appropriarsi della figura di Cesare Battisti.
«Pensi che al tempo di Mussolini ci furono interventi su mia nonna da parte di amici di Cesare. Il governo ci offriva un titolo nobiliare. Ci volevano fare “conti” o “baroni”. Offerte da mia nonna sempre sdegnosamente rifiutate. Ma pure dopo la guerra, alle cerimonie per Cesare, trovavamo sempre una piccola corona di alloro del M.S.I. Così gli ex partigiani cominciarono a presidiare il Doss Trento già dalla notte prima. E quelli non si fecero vedere più».
Non le sembra che tutte queste storie oggi siano, in fondo, dimenticate?
«Mi sembra che tante cose siano state dimenticate. La Resistenza è stata dimenticata. L’Antifascismo è stato dimenticato. Mi sembra che, su molte cose, stiamo tornando indietro».
Senta Marco, è stato difficile crescere con una famiglia simile alle spalle?
«Per un certo periodo, l’ho vissuta con preoccupazione. A scuola, professori e genitori dei miei compagni mi guardavano con una certa attenzione. Poi mi sono fatto un’educazione mia. In famiglia mi avevano avvisato: “Marco, sei un Battisti per te, non per gli altri”. Ci hanno insegnato a non usare il nostro cognome come un vanto. Soprattutto: ci hanno insegnato che nella vita occorre fare qualcosa che serva, non per lasciare un’impronta personale, ma per una causa. Io mi sono laureato alla Bocconi nel 1964. All’epoca la grande storia era la decolonizzazione dell’Africa. Così iniziò la mia avventura con il Mozambico. È lì che ho conosciuto mia moglie».
Eravate socialisti in una città conservatrice, irreligiosi in una città clericale, intellettuali in una città…
«… una città retriva. Be’, le racconto solo una cosa. Dopo la guerra, le processioni si fermavano sotto casa nostra, in corso III Novembre. “Preghiamo per la famiglia Battisti, che è atea!”. La nonna diceva: “Quando arrivano, spegnete le luci e abbassate le tapparelle”. Noi li spiavamo da dietro le imposte. Ricordo il prete, la croce, la folla. Ricordo che stavo lì a guardarli, un po’ stranito».
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I fatti del 14 dicembre 1946 furono ricostruiti così da Liberazione Nazionale: «Un treno merci proveniente da Napoli e diretto a Roma era trattenuto nella stazione di Santafé, presso Sessa Aurunca, per improvvisa mancanza di energia elettrica sulla tratta. Il personale di macchina, nel lasciare temporaneamente il locomotore, aveva omesso di chiudere di circuiti e di azionare i dispositivi di sicurezza. Cosicché, quando la corrente ha fatto ritorno, il treno si è mosso». Dopo poche centinaia di metri, superato uno scambio, si scontrò con il convoglio per Napoli.
Vi furono cinque morti e una cinquantina di feriti. Fu Matteo Matteotti, figlio di Giacomo, a riconoscere il corpo dell’onorevole Battisti.