Corriere della Sera, 3 novembre 2025
I duri e puri che frenano la sinistra
«Ciò che in Italia fa la vera differenza tra la destra e la sinistra quando si va alle elezioni è che i partiti della destra, pur litigando tra di loro riescono sempre a presentarsi uniti, invece i partiti di sinistra no. I quali quindi perdono, anche se magari la sinistra nel suo complesso raccoglie la maggioranza dei consensi». Ridotto al nocciolo è questo il modo in cui da tempo viene spiegata una tendenza elettorale ormai consolidata della politica italiana: con l’assai maggiore capacità della destra rispetto alla sinistra di fare squadra.
Mi pare tuttavia una spiegazione superficiale. Dal momento che non risponde alla domanda davvero cruciale: ma perché, allora, la destra riesce a coalizzarsi e la sinistra quasi mai?
Ciò dipende a mio avviso da una differenza decisiva, sebbene raramente presa in considerazione, esistente tra i due elettorati: il fatto che a destra non esiste, o è comunque scarsissimo, un elettorato radicalizzato, il quale invece è da sempre e in notevole misura presente a sinistra, potendo contare su scala nazionale all’incirca su almeno un milione – un milione e mezzo di elettori (ma forse di più considerando la sua incidenza sul fenomeno dell’astensionismo), tratti in specie dalle fasce giovanili. Per elettorato radicalizzato intendo quello che si nutre di scelte ideologiche forti, assai spesso decisamente polemiche verso il proprio stesso schieramento.
U n elettorato che vive tali scelte con un impegno altrettanto forte nella quotidianità, partecipando intensamente alle più varie attività di tipo politico (presenza alle manifestazioni, organizzazione di comitati «di lotta», altre forme di militantismo). Un elettorato che, quando vota, si distribuisce in modo ondivago tra 5 Stelle, Avs, e formazioni come Democrazia sovrana e popolare, Potere al popolo e altre consimili tipo Toscana rossa.
È evidente la difficoltà di coalizzare un tale elettorato. Di convincerlo a votare per un centro-sinistra di governo – vale a dire un centro-sinistra in cui l’istanza di centro sia almeno pari a quella di sinistra. Fondamentalmente, infatti, l’elettorato radicale non è interessato alle elezioni né a governare. La principale motivazione che lo anima sta altrove: sta nella testimonianza e nella lotta; esso non desidera esercitare il potere quanto soprattutto essere in grado ogni giorno di indignarsi contro di esso. Al radicalismo di sinistra non interessa la costruzione di un asilo o un aumento delle pensioni: interessa sentirsi dalla parte giusta della storia.
A destra invece non esiste nulla di simile. Formazioni come CasaPound o Forza nuova, a parte la loro sostanziale clandestinità sociale, anche elettoralmente valgono di fatto poco o niente: vuoi perché hanno una scarsa consistenza numerica vuoi perché probabilmente il più delle volte i loro iscritti indirizzano il loro voto verso uno dei partiti dello schieramento ufficiale della destra. Di questa diversa incidenza quantitativa che hanno il radicalismo di destra e di sinistra rispettivamente nei due elettorati si è avuto una prova nelle recenti elezioni regionali in Toscana: dove al flop delle candidature leghiste ultrà, ispirate dal generale Vannacci, ha fatto riscontro l’ottimo 4,51 per cento realizzato invece dalla già citata Toscana rossa.
A questo punto è inevitabile chiedersi il perché, in Italia, della presenza a sinistra di questo consistente elettorato antagonista, che dura inscalfibile da anni, che per il centro-sinistra di governo costituisce una sorta di continuo ricatto e all’occasione di paralizzante richiamo della foresta.
Una parte della spiegazione è innanzi tutto nella nostra storia. È nella lunga vicenda della Prima Repubblica, nei decenni e decenni di divulgazione di pensiero massimalista ad opera di un partito come il Pci – socialdemocratico e realista nella sostanza quotidiana – ma, nelle parole e nelle pose, denigratore sottile ma instancabile del capitalismo, dell’Occidente, della scuola «borghese», della miseria del riformismo, diffusore nel corso del tempo di decine di migliaia di copie di testi di Lenin e Stalin, cieco esaltatore di ogni rivoluzione pur se finita malissimo: dallo spartachismo al maoismo, da Cuba all’Etiopia.
Ma in questo modo si è creata e ha messo radici un’Italia insoumise, un’Italia di sinistra dura e pura. Che forse nella Seconda Repubblica avrebbe finito per esaurirsi se a fornirle continuo alimento non fosse intervenuta una forte sinistra culturale, anch’essa in qualche modo erede di lontane stagioni.
Presente in ogni circuito mediatico e nell’editoria, popolarissima in tutto il mondo dello show business, questa sinistra culturale è sempre pronta ad accogliere e a fare da eco, grazie ai mezzi di cui dispone, ad ogni punto di vista, a ogni libro, a ogni spettacolo, a ogni prodotto intellettuale, a ogni protagonista, capace di presentarsi come «nuovo», «critico», «d’opposizione», «alternativo». Così come è sempre pronta a schierarsi dalla parte del «progresso», di qualunque cosa si presenti con questi panni, e quindi a farsi sostanzialmente beffa di ogni valore della tradizione, ad abbracciare la causa di ogni «diritto», di ogni protesta, di ogni rivendicazione, specie se ad avanzarla sono «i giovani» o il mondo non occidentale. Ma – si dirà – non è forse ciò quanto avviene di solito in ogni democrazia europea? È vero, ma da nessuna parte la suddetta sinistra è influente come in Italia, perché solo in Italia essa è priva di qualunque efficace contrappeso nel discorso pubblico a causa della storica debolezza da noi di una cultura liberale o conservatrice.
È per l’appunto questo vasto retroterra culturale, diffuso per mille tramiti e portato per sua natura al radicalismo, che funge da continuo serbatoio di rifornimento e insieme da cassa di risonanza per la postura ideologica dell’elettorato antagonista, che ne alimenta quotidianamente l’esistenza. Rispetto a questo retroterra culturale la sinistra di governo è sostanzialmente indifesa. Essa subisce in silenzio la sua opera erosiva, la sua delegittimazione strisciante, la sua egemonia di fatto. Nel Pci di una volta un Amendola avrebbe di certo levato contro quel radicalismo la sua voce ammonitrice: ma nel Pd attuale sembra davvero assai difficile aspettarsi da chiunque qualcosa del genere.