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 2025  novembre 03 Lunedì calendario

Intervista a Natalino Balasso

Dopo un’ora di conversazione, forse abbiamo capito che Natalino Balasso, 64 anni, una vita tra tv, cinema, teatro, è un outsider di successo. «Sono uno che sta fuori dai giri». Un autodidatta versatile. Vive nella campagna emiliana, con la moglie e due asini, si chiamano Smith & Wesson, come le pistole americane.
Ma lei è un pacifista della risata.
«Sono un essere sofferente, un melancolico incline alla tristezza più che alla risata. Forse per questo bevo, come tutti i veneti».
Dov’è nato?
«A Porto Tolle, vicino a Rovigo. Per me il Polesine è il Messico con la nebbia, il ceppo dominante è il macedone, che è sempre stato povero. I tempi sono cambiati ma fino agli Anni 70 era una delle zone più arretrate d’Italia, quando è nata la locomotiva del Nord Est e il Veneto guadagnava, il Polesine è rimasto fuori».
Quanto c’è rimasto?
«Sono andato via a 18 anni, a Bologna ho frequentato il Dams, che non ho finito».
La sua adolescenza come la ricorda?
«Siamo cinque fratelli, educazione cattolica, seminario. Uscivo poco, stavo in casa ma non ero un grande studioso, mi piaceva la musica. Mi davo ai lavori stagionali, quelli d’estate al mare. Mio padre faceva la raccolta del latte sul camion, perché nelle fattorie non c’erano frigoriferi per la conservazione e appena munto il latte doveva essere raccolto».
E il mondo dello spettacolo?
«Ho sempre avuto voglia di salire su un palco. Ho cominciato tardi in modo serio. Inizialmente mi piaceva cantare, avevo i miei miti, Giorgio Gaber: quando un testo ha senso anche senza la musica. Gli amici ti dicono che sei un genio ma capisci che devi farti ascoltare da chi non ti conosce».
Quindi?
«Avevo un disco di Francesco Guccini, Via Paolo Fabbri 43. Era il suo indirizzo di casa. Suonai e mi aprì. Lui gentile, io spaesato, mi presentai con la cassetta, il mio nastro. Ascoltò e disse: ma a te cosa piacerebbe fare? Risposi che facevo anche cose comiche nei locali. Ecco, fai il comico. Quel giorno capii che non dovevo cantare».
E ha cominciato dai cabaret.
«È un termine un po’ stereotipato, che non amo, in America si identificano con gli spogliarelli, diciamo che a Bologna c’erano locali dove la gente beveva e tu sul palco potevi costruire un linguaggio. Poi c’erano le osterie, al Pavese si sono fatti le ossa Patrizio Roversi e Syusy Blady».
Di cosa parlavano i suoi monologhi?
«Erano storie inventate, avevo il mito di Alessandro Bergonzoni, cercavo modelli ma senza imitarli. Siamo abituati che uno va su un palco e racconta la realtà, le cose che succedono. Per quello non serve un artista, c’è il giornalista. I miei racconti invece sono onirici, sono un sogno. Beckett era uno che raccontava meglio la realtà, l’arte dell’assurdo che racconta l’assurdo della vita».
La gente la ricorda a Zelig.
«Sono andato via quando l’hanno spostato su Canale 5 in prima serata, ho capito che non si poteva più osare. In tv sono arrivato tardi, a 40 anni, dopo 10 che facevo teatro. Sono scappato perché a un certo punto diventa la gabbia in cui la gente ti vuol lasciare. Ho lavorato con la Gialappa’s, con Adriano Celentano per Adrian, persona dolce, ho capito perché affascina così tante persone: è rimasto un bambino, è abbastanza trasparente, quello che dice è quello che sta vivendo».
Lei ha pagato per restare sé stesso?
«Dal di fuori, la gente potrebbe dire sì. Ma è stata una mia scelta. Sapevo che a teatro mi venivano a vedere perché mi seguivano in tv. I veri appassionati di teatro sono pochi».
È stata una bella scuola la Commedia dell’arte, i canovacci su cui improvvisava dialoghi?
«Gli spettacoli sulla Commedia dell’arte impostati sulla bravura, le favolette in cui il testo è costruito per far ridere, mi interessano poco. In uno spettacolo portato nel Nord Italia ho immaginato un mondo post bomba atomica, sulla Terra sono rimaste le persone rintronate da un’esplosione globale, che vivono nell’isola degli Gnorri, non conoscono nulla e vivono secondo pulsioni che ricordano i caratteri della Commedia dell’arte».
Un maestro ideale a teatro lo ha avuto?
«Carmelo Bene, anche se non l’ho mai considerato un esempio da seguire, ma le cose stranianti e il fascino dell’assurdo e del paradosso mi attraggono. L’ispirazione può venire da gente che non fa questo mestiere, quando sei con gli amici mezzo ubriaco al bar. Ho sempre avuto amore e odio per l’alcol, come tutti i veneti ne sono attratto e lo ritengo nocivo. Amo Guy Debord, lo scrittore e filosofo francese che si scolava un bottiglia di vino dopo l’altra».
Immagino che l’arte che ha un messaggio le farà venire l’orticaria...
«Beh, nasce da una supponenza, quella di ritenere di essere depositario di una verità e di una superiorità intellettuale rispetto a chi riceve il messaggio».
Però quando ha scritto il libro «Dio c’è ma non esiste» il messaggio lo conteneva.
«È una raccolta di sensazioni, unite dal filo fragile di un giornalista che deve intervistare Dio, che lo porta in una discarica e dice: siete una società opulenta e vi definite poveri».
La satira ancora esiste?
«La satira è morta due millenni fa, è consolatoria, se voti per qualcuno che viene criticato dalla satira non ami più quel comico. Non ho mai visto un governo rovesciato da un artista satirico, però ho visto comici satirici che hanno fatto politica».
Perché il cinema d’autore in Italia si prende così maledettamente sul serio?
«Sfonda una porta aperta. Non c’è niente che possa dare maggiore delirio di onnipotenza di un palco. Esistono delle divinità perché l’Italia è piena di persone idolatranti, tendiamo al culto e creiamo miti che amiamo distruggere quando pensiamo di esserne stati traditi. Penso a Daniele Luttazzi, che non ha tradito nessuno».
Luttazzi col plagio si è dato la zappa sui piedi.
«Ha avuto vicissitudini, ha commesso il peccato di vanità di dire che lui pensava quello che recitava, Paolo Rossi invece ha sempre confessato di avere schiere di autori alle spalle. La cosa tragica non è buttarli giù ma metterli sopra il piedistallo».
Lei un po’ di cinema d’autore l’ha bazzicato.
«Sono incontri che ogni tanto capitano. Carlo Mazzacurati venne a vedere i miei spettacoli e mi diede una piccola parte in La Passione, per Gabriele Salvatores ho fatto Comedians, lui conosceva il giro di Zelig, Bisio, Gino & Michele... A dicembre sotto le feste sulla mia piattaforma Circolo Balassone metto il mio contro film di Natale».
Quando finirà il delirio dei social, gli insulti mascherati da finta democrazia?
«Tira fuori l’argomento del mio spettacolo, Giovanna dei disoccupati, debutta domani a Brescia. Come si è evoluta l’automobile così è avvenuto per il web. Eravamo partiti dalla tv... Funari ebbe l’intuizione geniale di portare il pensiero della gente fuori di casa. Ne aveva già parlato Umberto Eco, il mettere sullo stesso piano i pareri, oppure Eduardo negli Anni 50, quando a un ministro della Cultura chiese quale patente di credibilità avessero certi direttori di teatri».
Ci spieghi meglio la sua Giovanna a teatro.
«È uno spettacolo apocrifo brechtiano: cosa avrebbe guardato oggi Brecht, se si fosse dato un’occhiata intorno? C’è il suo modo di osservare la realtà attraverso una lente distorta. Nello spettacolo, trasfigurandoli, ho messo personaggi del mondo di Brecht, da varie sue opere, imprenditori o comunicatori o gente che comunque ha a che fare con l’interazione virtuale e che pensa a fare soldi. Giovanna è l’unica che fa quello che dice e dice quello che fa. Io interpreto uno squalo, sono il pesce più grosso dell’Acquario».