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 2025  novembre 02 Domenica calendario

"Dal verduraio incontravi la contessa. I ragazzi di Venezia crescevano parlando con chiunque"

Mario Andreose è nato a Venezia nel 1934. Importante esponente dell’editoria italiana, ha trascorso 35 anni alla Bompiani e nel 2015 ha fondato La nave di Teseo insieme a Elisabetta Sgarbi Umberto Eco. Il suo ultimo libro di memorie e riflessioni si intitola Un’educazione veneziana.
Perché ha scritto un libro sulla Venezia della sua infanzia?
«Sentivo il bisogno di ricostruire il passato, e raccontarlo agli amici e ai lettori dei miei libri precedenti. Mi ero imbattuto in una frase di William Faulkner, uno dei miei autori preferiti, che dice: “Il passato non è mai morto. Non è nemmeno passato"».
Il suo libro inizia il 10 giugno 1940, il giorno in cui l’Italia entra in guerra. Poi si arriva al 25 luglio 1943, la caduta di Benito Mussolini. Perché ha scelto queste due date?
«Perché sono quelle rimaste più impresse nella mia memoria. Le sanzioni contro l’Italia erano già in vigore, e c’era un forte risentimento verso le nazioni che l’avevano fatto. Quel giorno, si sventolavano bandiere per la gioia, perché avremmo “finalmente distrutto l’Inghilterra”. Cito due versi dal Corrierino dei Piccoli, che dicevano che re Giorgio, temendo la guerra, aveva chiamato il ministro Churchill, detto Ciurcillone».
Venezia è la protagonista di tre quarti del libro, e lei racconta come a casa parlavate il dialetto invece dell’italiano e, dopo il 25 luglio 1943, arrivò il tedesco e poi la lingua degli americani. Come ricorda questi passaggi?
«Molto vividamente. Quando Venezia venne occupata dopo l’armistizio dalla Wehrmacht, la Germania, nostro alleato contro l’Inghilterra, la Francia e la Russia, divenne invece un nemico. Gli ufficiali tedeschi avevano requisito la pensione Seguso, vicino a casa, e andavo lì per fare spuntini deliziosi, ma ero circondato da uomini della Wehrmacht. Avevo visto la città cambiare atmosfera, colore e lingua. Sarebbe successo di nuovo dopo la fine della guerra di liberazione, quando l’Italia si ritrovò dalla parte degli Alleati. Nessuno mi aveva spiegato cosa stesse accadendo, ma avevo provato istintivamente antipatia verso i tedeschi, che fecero di tutto per apparire cupi e cattivi».
A Venezia ha vissuto una vita di acqua e mare, al contrario della campagna dei suoi parenti, dove passavate l’inverno con le mucche. È stata una vita stranamente felice?
«Assolutamente. Abitando alle Zattere potevo vedere i protagonisti della vita culturale, artistica, musicale e teatrale di Venezia, con la rinascita della mostra del cinema e della Biennale. In campagna dagli zii era un mondo completamente diverso, molto vicino alla natura, cruciale per la nostra sopravvivenza durante la guerra. A nove anni portavo un sacco di sale – bene raro, perché l’Italia era divisa in due, e il monopolio di Stato produceva sale e tabacco nel Sud – agli zii che dovevano macellare un maiale: camminavo per chilometri, ma facevo ritorno con salumi e formaggi deliziosi. La stalla era anche il luogo dove si leggeva, perché dopo la liberazione la ritrovata libertà di stampa aveva generato un interesso quasi morboso verso le notizie di criminalità, censurate sotto il fascismo».
C’è un capitolo intitolato “Educazione sentimentale”, in cui parla del suo amore verso una ragazza di nome Andreana, che veniva da Alessandria d’Egitto e viveva in un appartamento molto strano. Poi, la sua famiglia la costrinse a smettere di frequentarla...
«Ero devastato, mi piaceva davvero quella ragazza, che ai miei occhi aveva un fascino esotico. La sua casa era piena di tappeti e divani. Quando giocavano ai puzzle, lei era più brava di me, mi prendeva la mano e me la stringeva per aiutarmi a mettere la tessera di cartone nel posto giusto. Quando a casa mi dissero “non puoi più andare da lei”, non avevo capito. Volevo piangere. Nessuno mi aveva spiegato nulla. Avevo insistito e dopo un po’, infine, una zia mi spiegò, abbassando la voce: “Non puoi più andare da lei perché è ebrea”. Fu la scoperta delle leggi razziali».

Lei parla della “salute dei miei genitori”, perché?
«Ho scelto di raccontare i loro problemi di salute perché li ho sempre visti stare male. Quando mia madre perse due figli in sei mesi – il mio gemello Vittorio e la piccola Annamaria – si ammalò di asma. Mi ricordo il suo respiro sibilante di notte. Purtroppo mio padre beveva, perché nella sua bottega entravano spesso amici e poliziotti invitandolo a bere... La salute dei miei fu il Leitmotiv del mio rapporto con loro».
Lei non ha nascosto nulla della sua trasformazione da un chierichetto a membro di organizzazioni fasciste per i giovani, il suo libro è sincero?
«Sì, è raccontato al presente, è vivo».
Allora perché non parla molto della sua vita professionale, dell’amicizia con Umberto Eco, del fatto di essere stato per anni l’editore di Alberto Moravia, del legame con Elisabetta Sgarbi?
«Perché è una stagione diversa. Il libro finisce quando lascio Venezia. Nell’ultimo capitolo ritorno e racconto anche alcune svolte della mia vita professionale, specialmente legate a Venezia, come Palazzo Grassi. Per me, questo libro è stato scritto per raccontare gli anni a Venezia, fino all’adolescenza».
Cosa resta oggi a Venezia dei suoi ricordi?
«Purtroppo, andarci oggi è difficile, sia per motivi di età, sia perché molti dei miei compagni hanno seguito la loro strada altrove. A Venezia puoi lavorare soltanto nelle professioni, avvocato, insegnante, medico, oppure vendere perle di Murano e pizzi di Burano. Per tutto il resto, devi andare a lavorare altrove. Ma la civiltà veneziana è tutt’altro che sparita».
Essere un bambino veneziano è un’esperienza speciale. Dal suo libro si capisce che, nonostante i tedeschi, i fascisti, gli americani, i comunisti o i democristiani, il bambino veneziano cresce libero.
«Assolutamente».
Gira da solo, si tuffa nell’acqua, sale su un battello…
«…e parla con chiunque. Nell’epoca che racconto, Venezia aveva 180.000 abitanti, oggi ne ha 50.000. Quindi già la concentrazione di umanità rendeva la comunicazione più facile: dal verduraio al pescivendolo, potevi trovare la contessa, l’avvocato, il soldato, il mendicante che aspettava la moneta, e tutti potevano parlarsi, nonostante la distanza siderale tra le loro classi di appartenenza».