La Stampa, 1 novembre 2025
Intervista a Peppe Vessicchio
Amare Mozart grazie a una mandria di vacche. È capitato a Peppe Vessicchio: anni fa, il direttore d’orchestra più amato della liturgia sanremese lesse in uno studio che i bovini del Wisconsin producevano l’8% in più di latte se ascoltavano la musica del genio di Salisburgo. «Mi incuriosii e iniziai a studiare le sue partiture alla ricerca di un codice – racconta –. Scoprendo un equilibrio nello sviluppo dell’intreccio delle melodie: una sequenza logica e al contempo geniale, in grado di interagire anche con le piante». Vessicchio ha iniziato così a usare le sinfonie di Mozart prima per far crescere le vigne e invecchiare il vino. Adesso, per suggellare il suo amore per il compositore austriaco, ha deciso di raccontarne la vita ai lettori più giovani, in un libro, Bravo bravissimo (De Agostini). «A 13 anni – scrive nelle prime pagine – Volfango aveva già visitato mezza Europa ottenendo successi incredibili. Io, alla stessa età, avevo giusto deciso quali passioni avrei coltivato».
Quella per la musica arrivò da piccolo?
«Sì. Nella tradizione napoletana, mandolino, chitarra e fisarmonica appartenevano alla quotidianità, come gli utensili da cucina. Fu papà a dare inizio a questo gioco».
Era un artista?
«No, ma era un creativo. Lavorava alla Eternit di Bagnoli, vivevamo in una delle palazzine prossime al deposito: tutte foderate di amianto. Molti anni dopo, per quella vicinanza, morì di asbestosi».
Fece in tempo a vederla affermato?
«Grazie a Dio sì. Ero poco più che un bambino, quando, notando che disegnavo bene, mi disse: “Potresti fare l’architetto”. Fu per lui che mi iscrissi ad Architettura, anche se nel frattempo la musica era diventata una passione».
Già al liceo?
«Avevo imparato i rudimenti da mio fratello, poi mi ero chiuso nella mia stanza a esercitarmi. Al liceo, durante le occupazioni, il mio pensiero era sempre uno: suonare. Se ne accorse il professore di latino, diplomato anche al conservatorio: dopo avermi ascoltato, mi ingaggiò per un matrimonio di sabato mattina».
Marinò la scuola?
«Sì. A giustificarmi ci pensò lui».
Poi si laureò in Architettura?
«No. Di notte andavo a suonare, al mattino uscivo presto per le lezioni. Papà, scorgendo la mia insoddisfazione, un giorno mi domandò a bruciapelo: “Ma se ti laurei, farai mai l’architetto? “. Gli dissi di no. E lui: “Allora perché continui? “. Risposi: “È una promessa che ti ho fatto”. “Se vuoi fare una cosa per me, cerca di essere felice».
La ascoltò: riprese a studiare musica a tempo pieno.
«E iniziai a suonare in un club in cui si esibiva anche Giobbe Covatta. Il proprietario gestiva un gruppo comico, “I Rottambuli": mi chiese se volevo organizzare la parte musicale. Diventammo “I Trettré"».
Quando capì che voleva dedicarsi alla sola musica?
«Nel 1980. Maurizio Costanzo ci chiamò per un suo programma, Grand’Italia, prima dell’esibizione mi voltai: alle nostre spalle c’era l’orchestra del grande Dino Siani, capii che il mio posto sarebbe dovuto essere lì. Finii a stento lo sketch, poi corsi a telefonare alla mia futura moglie: “Questa – dissi – è l’ultima volta"».
Cosa fece?
«Il mio pallino era la composizione. Presentai una canzone a Peppino Di Capri: allora una delle grandi star italiane. Gli piacque. Un altro artista, Peppino Gagliardi, la sentì e mi chiese di occuparmi del suo album. Così, a neanche 30 anni, finii a dirigere un’orchestra».
E come andò?
«Ero giovane, mi trovai davanti ai musicisti dell’orchestra Scarlatti: bravissimi, ma guardavano alla musica leggera come a un espediente per arrotondare. Iniziai a fare dei rilievi, ma mi snobbavano. Fu Gagliardi a dirmi: “Mandiamoli via”. Il direttore d’orchestra indica una via: se dice che è sbagliata, gli altri dovrebbero rimboccarsi le maniche».
Qualche anno dopo, nell’83, conobbe Gino Paoli.
«Stava lavorando a un nuovo progetto e i suoi discografici gli avevano proposto un grande direttore francese, Paul Mauriat. Così gli storici musicisti di Gino, temendo di essere soppiantati, gli suggerirono me come arrangiatore».
E Paoli?
«Andammo a trovarlo mentre era a cena da Maria Pia Fanfani, la moglie di Amintore. Reagì stizzito: “Non la conosco”. Aggiungendo sardonico: “Non ci siamo mai baciati in bocca”. Ci infilammo in uno stanzino pieno di cappotti, tirai fuori cassette e mangianastri, gli feci sentire tre-quattro cose. Per mettermi alla prova mi chiese quale mi piacesse di più. Ne indicai una. E lui: “Anche a me. Però questo non significa nulla”. Andai a trovarlo a Genova».
Lo convinse: nell’85 scriveste insieme Ti lascio una canzone.
«Gino voleva fare un omaggio a Ornella Vanoni come suggello della loro storia. L’idea mi piacque moltissimo: ancora prima di nascere, quella canzone aveva già una sua vita. Lui scrisse il testo, io la musica. Paoli era un gatto: non sapevi mai se ti avrebbe graffiato o fatto le fusa».
Nonostante quella canzone, Vanoni a un certo punto le tirò una scarpa.
«Accadde durante una prova: dopo che avevo fermato per l’ennesima volta un’esecuzione, ebbe uno scatto di stizza. La scarpa volò, ma non era diretta a me. Ridemmo tutti».
Sempre in quell’anno arrivò anche il primo grande successo televisivo: con Fantastico di Baudo.
«Pippo era potente, esigente e competente. Se uno degli arrangiamenti non gli piaceva, si tornava a scrivere fino a notte inoltrata».
Baudo se lo sarebbe ritrovato spesso a Sanremo.
«Era casa sua: pensi, una mattina lo sorpresi a spostare una fioriera all’ingresso del teatro».
All’Ariston lei ha accompagnato quattro volte i vincitori e altre quattro è stato premiato per gli arrangiamenti. Com’è cambiato Sanremo?
«Da festival della canzone è diventato il festival del prodotto. Una conseguenza, questa, dell’obsolescenza rapidissima dei testi: un tempo, un artista sognava di trovare il brano che sarebbe rimasto nel suo repertorio per sempre. Oggi ciò che conta è fare una cosa che funzioni subito».
Non sembra solo un problema di Sanremo.
«La musica contemporanea è un diagramma. Se la guardiamo in modo monodimensionale, dovremmo essere felici per la quantità di materiali e per la partecipazione dei più giovani, grazie anche a strumenti tecnologici straordinari».
Sento l’ombra di un «ma».
«Ciò che viene prodotto oggi è perlopiù modesto. La musica è diventata tribale: gli elementi che si utilizzano sono sempre meno, le canzoni sono monotonali».
Speranze?
«Sono riposte nella storia stessa della musica: se si guarda al passato, nei periodi meno felici c’è sempre stata una reazione. Accadrà anche stavolta. Prima però bisogna toccare il fondo».
Scenderemo ancora un po’?
«Temo di sì. Ma poi risaliremo».