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 2025  novembre 01 Sabato calendario

Giuliano Poletti: "Il potere non mi manca so di non essere un fenomeno. Coltivo frutta con mia moglie"

Giuliano Poletti, classe 1951, ministro del Lavoro nei governi Renzi e Gentiloni, è uno dei padri del contestatissimo Jobs Act. Figlio orgoglioso di contadini, funzionario comunista, presidente della Lega delle cooperative rosse, oggi fa il segretario di sezione del Pd a Bubano, nella bassa imolese.
Poletti, lei ha appena scritto “Il ministro con la falce”. Lasciamo un attimo da parte quella che accompagna il martello. Cosa le ha insegnato la vita in campagna?
«Direi tutto. Sono cresciuto in una casa in cui vivevano sedici persone. Due nonni, quattro figli maschi, due femmine, le mogli di tre dei quattro figli, i nipoti».
Chi si occupava dei campi?
«Tutti quanti, ciascuno doveva fare la sua parte. Vivere in campagna insegna anzitutto ad avere rispetto del tempo e delle stagioni. La velocità non la decidi tu, impari presto a capire che ci sono cose di cui non puoi avere il controllo: una sola grandinata può distruggere il lavoro di un anno. L’essere molto felici o disperati è sempre temperato da questa consapevolezza, che ti rende anche naturalmente solidale».
In che senso?
«Quando capitava che un vicino perdesse tutto, due volte su tre lo si accoglieva nei campi vicini per poter guadagnare qualcosa. Oppure gli si prestava una vacca per il latte. La mia storia di cooperatore è iniziata così».
Secondo lei oggi siamo meno solidali?
«Purtroppo sì. Le famiglie non sono più quelle di una volta, ogni persona deve bastare anzitutto a sé stessa. Maneggiare sempre il cellulare riduce le interazioni con gli altri. Io per dire che una cosa è bella ho a disposizione dieci parole, mia nipote Ginevra ne ha una sola: top».
Non ho capito.
«Il valore che assegniamo alle cose è schiacciato sul presente. Tutto è concentrato sull’effetto che produce nell’immediato. Noi anziani siamo cresciuti in un’epoca in cui credevamo che le azioni potessero cambiare il mondo. La paura la puoi provare da solo, la speranza si coltiva tutti insieme».
Secondo lei perché oggi vince la destra?
«Perché è molto più diretta e immediata, sa agitare gli spettri della paura e dire: ci penso io a difenderti, invece di costruire una riflessione complessa».
La cosa più bella in quattro anni da ministro?
«La legge sulla lotta alle povertà. Era una carenza gravissima, abbiamo affermato invece il principio secondo il quale l’essere poveri non è una colpa, e la società se ne deve fare carico».
La cosa più brutta?
«Il giudizio sul Jobs Act, per molti rimasto fermo all’articolo 18. In quella legge c’erano due cose importantissime: abbiamo cancellato le dimissioni in bianco, un’abitudine barbara per la quale si faceva firmare alle donne un foglio da tirare fuori del cassetto quando fossero rimaste incinta. La seconda: abbiamo sostanzialmente abolito il lavoro parasubordinato».
Come riempie le sue giornate oggi?
«Faccio moltissime cose. Sono nonno di tre nipoti, due dei quali vivono a pochi metri da me. Con loro mi diverto a inventare rime, ho piacere che imparino a giocare con le parole. Faccio il segretario del circolo Pd di Bubano, frazione di Mordano. Sono volontario al centro civico, dove abbiamo inventato “Balla coi libri": raccogliamo quelli di chi non li vuole più e li distribuiamo gratuitamente in cambio di un’offerta. Il ricavato va all’asilo e alla scuola materna».
Nemmeno un incarico tipico per un ex ministro?
«No. Però sono presidente della cooperativa “Mediterranei” che sviluppa piattaforme e programmi gestionali. E faccio il contadino. Ho un ettaro di terra attorno a casa mia con un centinaio di alberi da frutta. Io e mia moglie ci manteniamo giovani così».
Lei ha conosciuto Matteo Renzi all’apice della sua carriera politica. Secondo lei ha buttato dalla finestra il biglietto della lotteria?
«Troppo semplice dire che avrebbe potuto fare diversamente. Lui era convinto che all’Italia servisse quella riforma, ci ha creduto e ha perso. Gli sono grato per avermi permesso di fare una cosa che nella vita non avrei mai immaginato, ovvero diventare ministro».
Non gli è stato fatale l’ego?
«Ho avuto la tessera del Partito Comunista dal 1971, e da allora mai una volta la tentazione di lasciare quella comunità. Alla propria comunità bisogna restare leali. Renzi ha sbagliato a uscire dal Pd come il mio amico Pierluigi Bersani».
E cosa pensa di Elly Schlein?
«Sta facendo quel che si era proposta di fare. Io avevo sostenuto la candidatura di Stefano Bonaccini, ma penso che avere lei segretaria e Bonaccini presidente è la risposta più equilibrata per rappresentare un corpo sociale come quello del Partito Democratico».
Molto diplomatico.
«È quel che penso!».
Le manca il potere? Ricorda quella ebbrezza?
«Per come l’ho interpretato io, non l’ho mai avvertita, né in senso positivo né negativo. Ho sempre considerato quel ruolo al servizio di una comunità. Ho sempre saputo di non essere un fenomeno, di non essere più intelligente della media, ma allo stesso tempo ho sempre avuto chiaro che la fascinazione per il potere può farti fare grossi errori. Mi perdonerà la battuta, ma ho fatto il ministro con lo spirito di un contadino».
Questo è troppo, abbia pazienza.
«Glielo garantisco. Non mi sono mai veramente accorto di avere avuto potere, ho sempre continuato a meravigliarmi per quel che mi capitava. Ecco, giusto una volta mi sono trovato a ragionarci».
Quando è accaduto?
«Durante una riunione ministeriale dell’Ocse a Parigi, avvenne in un semestre di presidenza italiana dell’Unione. Alla mia destra c’era il premier giapponese, a sinistra il segretario generale dell’Ocse. E mi sono detto: che ci fa qui Giuliano Poletti?».