la Repubblica, 1 novembre 2025
Ninna Quario: “Mia figlia Federica Brignone non si fermava neanche a un anno. Tomba l’ha vista crescere”
«Mia figlia è sempre stata in movimento» ricorda Ninna Quario, madre-campionessa di Federica Brignone. «Dopo il parto mi mettevo sdraiata per ricostruire gli addominali, la appoggiavo sulla pancia come un contrappeso, andavo su e giù e lei rideva come una matta. L’unico modo per stare ferma era camminare, ma in certi giorni non potevo mica morire sotto il sole…». Milano-Cortina è appesa a Federica Brignone, a un sì o un no della donna che più manca allo sport italiano.
Ma al di là delle coppe e delle medaglie, cosa rende speciale e attesissima quest’atleta controcorrente, che ha toccato la vetta della sua carriera a trentacinque anni, sfracellandosi in una gara secondaria «perché senza di me che campionato italiano sarebbe stato?». A raccontare come mai prima l’unione tra la slalomista della Valanga Rosa anni Settanta-Ottanta e la figlia ancor più dotata ci ha pensato la madre, Maria Rosa Quario detta “Ninna”, nel suo libro Due Vite (edizioni Minerva). Classe 1961, quattro vittorie nella Coppa del mondo avventurosa di quell’epoca, “grafomane” già da atleta («A dodici anni confezionavo la mia rivista di sci»), a lungo giornalista, Quario è madre di una figlia fuoriclasse e di un figlio allenatore, Davide, passati dal paradiso all’inferno in pochi minuti.
Ninna Quario, cominciamo dalla fine: Federica parteciperà alle Olimpiadi di Milano-Cortina?
«Non lo so, ma sono più fiduciosa perché Federica ha fatto miracoli con la rieducazione. Il giorno dopo l’infortunio dissero che prima di dieci mesi, cioè a febbraio 2026, sarebbe stato difficile vederla camminare normalmente, ora invece lei sta pensando al momento in cui rimetterà gli sci. Tornerà, nessuno sa come ma lo farà».
Il giorno dell’infortunio, quando suo figlio le disse “la gamba si è come staccata, penzola”, lei e il suo ex marito Daniele vi dicevate che Federica doveva smettere: ne è ancora convinta?
«Non ho cambiato idea, da anni glielo dico. Ma vedo Fede, tra alti e bassi, talmente determinata che non posso che assecondare il suo desiderio. La incoraggio, la aiuto a rientrare».
La vorrebbe vedere portabandiera a Milano?
«Sono milanese, l’idea che mia figlia porti la bandiera a San Siro, dove da bambina andavo a vedere il calcio, mi piace un sacco. Ho partecipato a due cerimonie con Gustav Thoeni e Paul Hildgartner portabandiera, so che lei sarebbe felice di vivere questa esperienza».
Torniamo all’inizio, al senso di Federica per la neve.
«Aveva un anno e mezzo, eravamo a Tignes dove il padre faceva il maestro a dicembre: la trovammo con gli sci bianchi e rosa che si era “rubata” in un negozio. Alle elementari volle dormire in tenda solo con un’amica e il fratello in Val Ferret, il giorno dopo trovammo la tenda spostata per ripararsi dal vento e il nostro cane in castigo perché si era mangiato tutte le provviste. A Tignes andavamo anche per lo sci estivo, e il giorno del suo compleanno, il 14 luglio della presa della Bastiglia, dicevamo che i fuochi d’artificio erano per lei».
Com’è nato il rapporto speciale con Alberto Tomba?
«Lo conosco da quando era in squadra C, nel 1988 a Saas Fee mi chiese com’era la pista mentre salivamo in seggiovia: non aveva nemmeno fatto la ricognizione. Quel giorno vinse con quasi due secondi di vantaggio. Portai Federica nel marsupio a una sua gara in Alta Badia: lei, sempre così attiva, fu l’unica a dormire tra urla, trombe e rumori da stadio. Alberto ha sempre avuto una predilezione per lei, l’ha vista nascere, anche quando veniva assediato mi faceva da lontano: “Federica sta bene?”».
Sua figlia ama anche il mare, soprattutto il surf: quando ha sviluppato il feeling per l’acqua?
«Credo nei segni del destino, e penso che lei sia stata concepita nell’acqua. Eravamo tornati da un weekend in Liguria, entrammo in casa la sera tardi ed era tutta allagata: si era rotto un tubo. In quelle situazioni che fai, in attesa di chiamare l’idraulico il giorno dopo? Passi lo straccio e vai a letto…».
«Mai parlato di sesso, o di relazioni personali, con lei non sono mai stata amica, non ce n’era bisogno»: lo scrive lei a proposito del rapporto con sua madre Adriana, ma anche di Federica.
«È così da una generazione all’altra. È il figlio che deve chiedere l’amicizia della mamma, se quest’ultima vuole fare l’amica è invadenza. A me è piaciuto che mia mamma non abbia invaso la mia vita. Davide si confida con me, mi racconta tutto, se Federica invece rientra alle tre io non le chiedo dove è stata, cosa ha fatto. Lei è sempre stata fieramente autonoma, per questo ha sofferto all’inizio della riabilitazione quando non riusciva ad andare da sola nemmeno in bagno. Se ha bisogno di me io ci sono, così come c’è stata lei quando non respiravo più per il Covid, mi sentivo soffocare e lei mi ha ospitato facendomi da infermiera. Quando ero giornalista lei era incavolata nera se intervistavo le altre atlete e non le prestavo attenzione, da quando ho smesso guardo le gare con un altro occhio, da mamma, e credo che anche questo sia uno dei motivi del salto di qualità di Federica».
Lei è stata amica intima di Leonardo David, che nel 1979 finì in coma dopo una caduta a Lake Placid e morì pochi anni dopo: più di quarant’anni dopo lo sci può ancora essere letale.
«Fino a quel momento ero una ragazzina spensierata, poi ho capito che nella vita può succedere qualsiasi cosa. Vedi un ragazzo felice e vincente, e il giorno dopo non c’è più. La sicurezza ai miei tempi era ridicola, ma Leo è morto perché non c’erano le possibilità di diagnostica di oggi: se gli avessero fatto la Tac lo avrebbero operato subito per l’ematoma provocato da una caduta precedente. Oggi credo che i colpevoli degli incidenti siano gli sci talmente performanti da non permettere di recuperare un errore: Matteo Franzoso è caduto a 70 all’ora, Matilde Lorenzi a 50».
Racconta che alla notizia dell’incidente di Federica si è sentita “paralizzata, con la nausea e la voglia di farsi male pur di vedere tornare sana sua figlia”.
«Volevo riavvolgere il nastro, agivo come un automa, ho buttato in giro per casa tutti i vestiti da sci che avevo addosso, mi sono ricordata solo di mettere in frigo i limoni che avevo lasciato in infusione per fare la marmellata. Di fronte alla clinica ho scoperto la popolarità di mia figlia, era pieno di telecamere. È stato uno shock, ma anche un’esperienza da vivere per noi: la vita si ferma se il tuo ragazzo muore, altrimenti va avanti. Dopo sei giorni di ospedale sono tornata a casa e ho fatto la marmellata: è venuta buonissima».