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 2025  novembre 01 Sabato calendario

Francesca Fialdini: “Bisogna ribellarsi agli abusi e agli amori tossici. Rinascere è come un tango”

Ci sono domande difficili da porsi: perché sto ancora qui? Risposte difficili da darsi: come si fa a rompere la prigione di mortificazione, senso di colpa e paura che ci tiene legati? Giudizi sugli altri difficili da sospendere: perché non lo lascia? Nella spirale delle dipendenze affettive Francesca Fialdini ci ha guardato dentro, oltre la superficie, all’origine dei rapporti disfunzionali, della violenza fisica e psicologica. Il buio della manipolazione mentale, lo sbandamento dell’idealizzazione del narcisista e la liberazione dalla gabbia sono diventati un tango a Ballando con le stelle. E un libro, Come fossi una bambola, scritto con lo psicoterapeuta Massimo Giusti. Cinque storie di donne «nelle quali ci si può specchiare» perché «Corinna, Elisa, Martina, Vittoria, Lucrezia sono ognuna di noi, una sorella o un’amica che ha vissuto una dipendenza affettiva».
Anche lei si è sentita una volta almeno come una bambola?
«Sì, anch’io. Ho scritto questo libro perché so bene di cosa parlo. Mi è accaduto nel privato, cioè in famiglia, nelle relazioni, nelle amicizie, e sul lavoro. Ho dovuto affrontare un lungo percorso, capire che la responsabilità di ricucirmi era nelle mie mani. Mi ero resa conto che non riuscivo più a dire dei no, a essere assertiva, a essere presa sul serio anche quando difendevo la mia libertà e quel che amavo nella vita».
Un “no” a un abuso ha raccontato di essere riuscita a dirlo.
«Più volte mi è successo. A uno ho levato le mani dal corpo, un altro l’ho rifiutato ripetutamente. Persone che avevano un potere da esercitare nei miei confronti, ma non ho mai avuto paura. “Se ce la faccio, lo faccio da sola”, mi ripetevo. Sono stata fortunata ma anche ferrea e determinata. Quando ho tentato di denunciare, però, è stato impossibile».
Perché?
«Attorno a me si è alzato un muro di omertà: sola contro un sistema gigantesco».
Dalla tv e dalla politica sono partite in questi ultimi mesi invece le denunce contro i siti sessisti. Lì c’erano anche le sue foto.
«Purtroppo non scopriamo nulla di nuovo, ci si doveva arrabbiare molto prima: da anni sui social si ruba e si dice di tutto, contro le donne e i bambini. Certo, è un’altra violazione, ma è ipocrita l’indignazione mentre non riusciamo a difendere i corpi nemmeno nella realtà».
Nel suo libro racconta che molte dipendenze affettive nascono da traumi, silenzi, emulazioni o reazioni nell’età infantile. A scuola serve l’educazione sessuo-affettiva?
«È più che necessaria, è fondativa di qualsiasi insegnamento. E allora, mi chiedo, perché si ha tanta paura? Gestire persone senza identità anche nel campo dei sentimenti è più facile. Non bastano leggi più severe, dobbiamo andare alla radice e la radice sta proprio nella cultura che offriamo ai nostri ragazzi, a casa e a scuola».
C’è una storia che racconta in cui la dipendenza affettiva si lega a un disturbo dell’alimentazione, a quella fame d’amore giovanile a cui dedica tanta parte del suo lavoro. Chi sono questi ragazzi?
«Sono quelli che tornano a casa e si sentono giudicati, investiti di desideri che non sono i loro, non amati. Quel bisogno d’amore diventa una voragine finché non trovano uno sguardo che li faccia sentire importanti, talvolta passando da una dipendenza all’altra. Per le famiglie è un dito nella piaga, lo so, ma in amore serve l’umiltà di mettersi in discussione».
Anche lei ha avuto una fase complicata con il corpo.
«Da adolescente lo nascondevo, indossavo i maglioni e i pantaloni di papà. Come in Albachiara di Vasco: “Non ti metti mai niente che possa attirare attenzione”. È stato il mio primo momento buio».
Poi ne ha avuto un secondo. Ha detto: “Piangevo e dovevo andare in onda col sorriso”.
«È stato un periodo di profondo dolore, intorno ai quarant’anni. Io che avevo fatto sempre scelte emotivamente convinte, che avevo chiari i miei sogni, mi svegliavo senza desideri, non sentivo felicità, soddisfazione o realizzazione, mi sforzavo d’immaginare un futuro e non lo vedevo. Quando arriva quella benda nera sugli occhi, sei una preda facile per chiunque e non riesci neanche a spiegarlo. Sei morta dentro, come quando si strappano i fili della luce e salta l’elettricità. Io ero spezzata a metà, una delle mie più care amiche era morta. Il suo addio però mi ha messo davanti a uno specchio».
Cos’ha trovato nello specchio?
«Mi sono vista e ho dovuto accettare che da sola non potevo farcela da sola, proprio io che da sola me la ero sempre cavata».
Ed è andata in terapia.
«Come nel tango che ho danzato a Ballando ho levato quella benda dagli occhi, un’ombra che ti trattiene, ti rende cieca, ti fa credere a qualsiasi cosa, finché non te ne liberi, la butti via e finalmente cammini sulle tue gambe a testa alta».
Come si esce da quell’ombra?
«Scavandosi dentro senza paura, andando a fondo, raccontandosi anche verità scomode, scavalcando quei timori reverenziali che ci sono quando si parla di famiglie. E avendo attorno una rete che ti sostiene».
Chiedere aiuto è ancora un tabù?
«Più che altro manca la fiducia nell’affidarsi a un altro, a un professionista, qualcuno che ti fa fare le domande giuste. Spesso le donne che arrivano in terapia ci arrivano con domande sbagliate: “Perché mi umilia? Se sono più disponibile mi ama di più?”. Invece di chiedersi: “Perché sopporto ancora tutto questo?”».
Ha detto: “Mi è stato insegnato a non parlare di sé, delle proprie ferite”. Perché ora ha raccontato che qualcosa in lei si era rotto?
«Perché in tv noi veniamo costruiti dagli occhi degli altri, io sembravo forte, tutta d’un pezzo. E invece sono normale e parlarne spero sia d’aiuto per qualcun altro».
A “Ballando con le stelle” sembra rinata, una Fialdini diversa. Anche il ballo è stato catartico?
«Più di quanto mi aspettassi. Non distinguo una salsa da una rumba, ma quando mi hanno proposto il tango l’ho inteso subito come un rapporto di lotta: volevo rendere visibile un conflitto interiore senza tante parole. Credo che ognuno abbia potuto vederci un pezzo di sé».
A essere meno severa con sé stessa ci è riuscita?
«Decisamente sì. Quando ho cominciato a fare il lavoro che sognavo non ne conoscevo le regole, pensavo bastasse farsi trovare preparati. Poi ho capito che è un gioco complesso e per reazione mi sono irrigidita, non mi sono fatta sconti, non sono stata gentile con mé stessa, ho chiesto tanto alla mia vita, alle mie amicizie, per restarmi sempre fedele. Oggi la vivo con molta più serenità, ma per volermi bene ho dovuto conquistare una maturità interiore che prima non avevo».
Cosa la rende vulnerabile?
«Non so se sia vulnerabilità ma ho imparato a non trattenere le lacrime. Prima lo facevo per pudore e rispetto. Oggi il dolore degli altri mi arriva moltissimo e anche la felicità mi commuove. Mostrare i sentimenti non è segno di fragilità, questa è solo un’etichetta che hanno attaccato addosso alle donne e di cui dobbiamo liberarci».
Le ultime lacrime?
«Per Andrea Delogu. Stava venendo a provare una coreografia quando le hanno detto di Evan. Vorrei solo che sapesse che le vogliamo un bene enorme. È una donna straordinaria, un giorno spero che di tutto questo dolore e dell’amore di suo fratello riuscirà a fare il cemento su cui costruire una nuova casa».