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 2025  novembre 01 Sabato calendario

Prima usati, poi abbandonati: “Così il governo tradisce i pentiti e indebolisce la lotta alla mafia”

Giorgia Meloni subito dopo il suo insediamento da presidente del Consiglio prende il microfono, alza lo sguardo e scandisce parole forti, granitiche: «La mafia fa schifo. La combatteremo con tutte le forze che abbiamo». Accanto a lei, Chiara Colosimo, presidente della Commissione antimafia, ribadisce che «la strategia delle mafie è cambiata» e che bisogna «anticiparne le mosse». Ma mentre le parole si gonfiano come bandiere nel vento delle ricorrenze da Capaci a via D’Amelio, soffiando sulle celebrazioni, le corone, le lacrime, c’è un pezzo d’Italia che muore in silenzio. È l’Italia dei collaboratori di giustizia. Quelli veri. Quelli che hanno voltato le spalle a Cosa nostra, alla ’ndrangheta, alla camorra, rompendo il giuramento d’onore per servire lo Stato. Lo Stato che oggi li tradisce. Ma di tutto questo che sta accadendo negli ultimi due anni, Meloni e Colosimo ne sono a conoscenza?
C’è uno scarto, un’incrinatura profonda tra la narrazione della politica e la realtà vissuta dai collaboratori di giustizia. È un baratro. E dentro ci finiscono loro: senza più un tetto, un lavoro, senza più lo sguardo benevolo del governo che li aveva accolti quando servivano. Lo Stato che ti chiama “testimone di legalità” finché parli, ma che poi si volta dall’altra parte, quando hai parlato.
Questa è anche la storia di Vincenzo Gennaro, ex uomo di Cosa nostra palermitana, poi collaboratore di giustizia. Nove anni nel programma di protezione, poi la capitalizzazione: una somma di “buona uscita” per comprare casa e rifarsi una vita. «Così ci dissero», scrive a Repubblica Gennaro, «ma con quella cifra ho potuto comprare solo un rudere. Poi, dopo un anno dall’uscita dal programma di protezione, arriva la cartella: cinquantaquattromila euro di spese processuali. Mi chiedo come fa lo Stato prima a darti e poi a volerti togliere quello che ti ha dato». E aggiunge: «Quando ci hanno fatto firmare il programma speciale di protezione nessuno ci aveva messo al corrente che finiti i procedimenti penali avremmo dovuto pagare la spese processuali anche perché nel programma c’era scritto che sarebbero state pagate le spese legali (per noi era sottinteso che avrebbero pagato tutto e non solo l’avvocato). Adesso ci ritroviamo in una situazione talmente insostenibile che verrebbe voglia di non andare più avanti».
Oggi Gennaro vive con una pensione di 813 euro, la moglie con 343 euro d’invalidità. Lui ha una grave malattia e per questo ha bisogno di cure, lei invalida. La casa che il governo gli ha permesso di comprare rischia di finire all’asta per l’ipoteca dell’Agenzia delle Entrate. «Lo Stato ha avuto quello che voleva. Ha arrestato grazie alla mia collaborazione decine di persone. E adesso si può pure morire», conclude Gennaro.
La storia di Vincenzo Gennaro, difeso dall’avvocato Monica Genovese, è la storia di molti ex collaboratori. Lo stesso Stato che gli ha dato adesso vuole indietro. Un paradosso kafkiano. Come lui almeno altri otto collaboratori di giustizia sono nella stessa situazione. I numeri ufficiali di chi ha capitalizzato ed ha ricevuto il pignoramento però non vengono resi noti.
L’Agenzia delle Entrate, per legge, può pignorare le somme stanziate per la capitalizzazione se il collaboratore ha debiti con l’erario che derivano, guarda un po’, dai processi in cui lo stesso collaboratore è stato imputato ed ha contribuito alle sentenze di condanne inflitte ad assassini e stragisti. È un cane che si morde la coda.
Meloni di tutto questo cosa pensa?
Così, mentre Colosimo parla di infiltrazioni mafiose negli appalti, lo Stato punisce chi ha denunciato quegli appalti truccati. Mentre Giorgia Meloni evoca Falcone e Borsellino, dimentica che fu proprio Falcone a volerli, i collaboratori di giustizia, a premiarli, a proteggerli, a garantirgli una vita nuova. Oggi, invece, con il governo Meloni, nel silenzio istituzionale, si gioca al ribasso: si esce dal programma di protezione e si va in mezzo a una strada. O peggio, si torna a casa. E casa, per un ex mafioso, è una trappola mortale. Oppure sottomissione ai clan. E i mafiosi ridono dello Stato.
Lo dice l’avvocato Silvio Nisticò, difensore di collaboratori di giustizia: «Così si disincentiva collaborazioni future». E aggiunge: «insistere nel recapitare al collaboratore di giustizia cartelle esattoriali particolarmente gravose significa rendere vano qualsiasi reinserimento sociale, che è poi uno degli obiettivi della legge premiale anche attraverso la capitalizzazione. Non si vede, infatti, come si possa garantire il reintegro sociale, non solo del collaboratore ma dell’intero nucleo familiare, quando lo Stato procede al pignoramento sia delle somme erogate a titolo di capitalizzazione sia di quelle frutto dell’eventuale attività lavorativa svolta post collaborazione. Sarebbe un fardello difficilmente sopportabile».
Lo spaccato sociale lo descrive l’avvocato Ugo Colonna che difende collaboratori e testimoni: «La situazione è gravissima ed esplosiva. Alcuni collaboratori dormono in macchina. Qualcuno, purtroppo, è tornato a delinquere, compiendo per sopravvivere piccoli furti nei supermercati». Non per scelta, ma per fame.
Nel frattempo, la Commissione centrale per la protezione dei collaboratori, che fa capo al ministero dell’Interno, da un lato delibera le capitalizzazioni, e dall’altro il Mef ne blocca l’erogazione per via di un interpello fiscale. È il cortocircuito dello Stato bifronte: il Viminale dà, il ministero delle Finanze prende. Uno dice “grazie”, l’altro ti mette l’ipoteca sulla casa e ti blocca la somma ricevuta. E la Commissione antimafia? Colosimo tace. Non una proposta legislativa.
Lo scorso maggio il Tar del Lazio ha fatto chiarezza: la capitalizzazione non può essere subordinata al pagamento dei debiti fiscali. La casa può essere intestata a un familiare inserito nel programma. L’amministrazione non può agire come creditore pignoratizio. Ma intanto, i collaboratori restano appesi. E l’Agenzia delle Entrate ha già pronto l’ennesimo interpello, l’ennesimo cavillo per ritardare, bloccare, negare. È una guerra di logoramento. E i logorati sono sempre gli stessi.
«Basterebbe poco per risolvere il problema» dice l’avvocato Colonna. «Vista la natura alimentare del progetto di vita oggetto della capitalizzazione, il governo potrebbe con un decreto legge introdurre una norma con la quale si dispone che le somme a titolo di capitalizzazione, così come l’assegno mensile alimentare ricevuto dai collaboratori di giustizia, sia dichiarato impignorabile».
Per l’avvocato Silvio Nisticò «L’unica soluzione è procedere alla cancellazione dei debiti fiscali. Qualora ciò non avvenisse la lotta alle mafie verrebbe certamente indebolita».
Cosa ci dice tutto questo? Che la lotta alla mafia non si fa con le dichiarazioni da palcoscenico. Che non bastano le commemorazioni, le passerelle, le frasi fatte. «Lo Stato non può piegarsi alla mafia», dice Meloni. Ma se lo Stato piega i suoi servitori, i suoi testimoni, se li umilia, li impoverisce, li espone, allora è lo Stato che si piega. Non alla mafia, ma al proprio cinismo.
Il collaboratore di giustizia è l’arma più potente che lo Stato abbia. Se questa viene spuntata, maltrattata, pignorata, ci saranno pochi processi alle mafie. E crescerà il silenzio. E il silenzio, si sa, alla mafia e ai suoi complici piace.