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 2025  novembre 02 Domenica calendario

Intervista a Boris Becker

«Ero sempre io, in realtà. Ci sono diversi lati della mia personalità: alcuni li conoscevo, altri no. E come avrei potuto? Quando perdi tutto ciò che consideriamo importante – la libertà, il denaro, le persone che ami – l’unica cosa che resta è il tuo carattere. Mi ha fatto sopravvivere a quell’inferno. Ora so che puoi gettarmi nella peggiore situazione, e troverò il modo di venirne fuori».
Essere uno dei tanti è stato liberatorio?
«Sì, è la parola giusta. Quando hai avuto tanto successo, come me, ti costruisci addosso molti strati di comfort, di abitudini: un peso che finisce per coprire il tuo nucleo più autentico. Eppure, proprio quel nucleo mi aveva reso così vincente. Ma nulla di buono accade, quando stai comodo. E io dovevo eliminare quel comfort dalla mia vita, dalla mia mente, per scoprire chi fosse davvero Boris Becker».
L’appuntamento è al Corriere, fuori piove e c’è il mercato di San Marco. Chiama: «Non è che posso parcheggiare dentro?», ci tiene ad essere puntuale. Boris Becker vive da due anni a Milano, ha scritto un libro, Inside (Mondadori). Quando esce dall’auto, zoppica un po’: maledetto ginocchio sinistro, lascito della carriera di tennista. È accompagnato dalla moglie Lilian, manager che parla 5 lingue e aspetta il loro primo figlio. Ha la sicurezza, e la calma, di chi da molti anni non stava così bene.
Lei ha vinto Wimbledon a 17 anni, 7 mesi e 15 giorni. E Wimbledon – il posto che le ha dato fama, successo, denaro – e Wandsworth, la sua prima prigione, distano tre chilometri in linea d’aria.
«Che follia, la vita. C’è una rotonda quando esci da Londra, da Chelsea, verso sud-ovest e attraversi il ponte. Se vai a sinistra, arrivi a Wimbledon; se vai a destra, arrivi al carcere di Wandsworth. Entrambi a un miglio da quella rotonda. Quando Tom (Fordyce, il coautore del libro, ndr) è venuto a vivere insieme a me e Lilian a Milano per vedermi a casa, sentire la mia inflessione, mi ha detto: Boris, se questo fosse un film di Hollywood, non sarebbe credibile».
Invece...
«Ci ho riflettuto a fondo. Perché io, il più giovane campione di Wimbledon di sempre, 40 anni dopo finisco in prigione? Sono sempre stato un bubble breaker. È la mia storia».
Uno che rompe le bolle. Gli schemi.
«Faccio cose che nessuno ha mai fatto prima. All’inizio mi criticano, poi le fanno anche gli altri. Forse, per via del mio carattere, non sono troppo amato tra i colleghi. Però dicono: Becker vede le cose in modo diverso».
Da dove ha origine tutto ciò? Quanto viene da suo padre? Quanto da sua madre?
«Beh, è lì che comincia la storia. Mia madre era una rifugiata: a 10 anni dovette fuggire su un carro trainato da cavalli dalla Repubblica Ceca per l’arrivo dei russi, ed è stata accolta in Germania. Perdere tutto e ricominciare da capo: fa parte del mio carattere. Per questo ho una particolare sensibilità verso i rifugiati: sono figlio di una di loro».
E Herr Becker?
«Un tipico tedesco dell’Ovest. Però, il suo musicista preferito era Louis Armstrong, un sassofonista nero. E il suo atleta preferito non era Franz Beckenbauer, ma Muhammad Ali. A sei anni, mi svegliava alle due di notte per guardare insieme i suoi match. Non avevo scelta, ero già diverso. Mio padre era architetto, mi ha dato grande libertà. Inutile dire che i miei non hanno mai accettato un soldo da me».
Una cosa molto tedesca.
«Conosco genitori tedeschi che vivono dei guadagni dei figli. Noi eravamo diversi».
Gli anni peggiori. Com’è andato in bancarotta, all’inizio piano e poi all’improvviso, come disse Hemingway?
«È complicato, ma sono felice di potervi spiegare. Il diritto fallimentare nel Regno Unito è molto diverso da quello tedesco o italiano: qui da voi avrei preso una multa. Dunque, c’è un prestito di una banca inglese nei miei confronti, e in cambio avevo dato in garanzia i miei diritti d’immagine. Quel prestito era inoltre garantito da una finca a Maiorca. Non c’era alcun bisogno che la banca si rivolgesse al tribunale, o mi spingesse verso la bancarotta. Due anni dopo la bancarotta, infatti, ho rimborsato la banca fino all’ultimo centesimo».
Ma tutto è precipitato comunque.
«Quel prestito prevedeva un tasso d’interesse del 25%. Il mio avvocato l’avrebbe dovuto notare – era scritto in grande —, io l’avrei dovuto notare, ma ci si affida agli avvocati per questo, no? Però non cerco scuse. Ho fatto errori. Il fallimento è arrivato come uno shock, mentre ero in macchina: eppure, avevo ancora dei redditi, altre proprietà in Germania, a Londra. Ma il danno ormai era fatto, il brand compromesso, le aziende in ritirata. C’è un altro mito da sfatare: i miei reali guadagni in carriera».
Sfatiamolo.
«Leggo 100 milioni: sbagliato. Leggo 50 milioni: sbagliato. La metà di quella cifra, forse».

Perché non è miliardario come Federer?
«Erano altri tempi. Negli anni Ottanta a Wimbledon vincevi 300 mila sterline, ora tre milioni. E comunque, la metà del premio se ne va in tasse, poi si devono dedurre i costi. La gente sente queste cifre e si fa idee irrealistiche. Quanto a me, ho avuto due divorzi costosi, il mantenimento di quattro figli. Ho sempre vissuto con un certo tenore ma non ho mai sperperato il denaro in yacht o Ferrari».

Crede nel destino o nel caso?
«Credo molto nel karma. Ciò che dai, ti torna indietro. Se non dai nulla, non ricevi nulla. Se provi a barare, è la vita che finirà per fregarti. Credo nella maratona, sulla distanza».
Leggendo il libro, sembra che lei abbia affrontato la prigione come il tennis. Osservava i carcerati come un tempo gli avversari.
«Esatto. La mia forza nel tennis – certo, ero potente – era che giocavo in modo strategico. Non ero il più veloce, non avevo un rovescio eccezionale ma più durava la partita, più entravo nella testa del mio avversario. E un’altra cosa: so leggere l’ambiente. So capire chi sono i duri, in cosa sono forti: metto a fuoco la persona in pochi secondi. E poi mi piacciono gli scacchi e il poker. Ci ho giocato da professionista, a fine carriera. Con queste doti sono nato».
Grande intelligenza, Boris. Ma non era il solo. Sa dove vogliamo arrivare: Andre Agassi leggeva il suo servizio osservando i movimenti della sua bocca...
«Sì, la conosco questa storia. Ma devo dirvi che non è vera. Io adoro Andre, davvero. Ma è nato e cresciuto a Las Vegas, e lì l’immagine è tutto. Ho letto Open, un libro magnifico, ma quel passaggio è, diciamo, in puro stile Vegas. Pensateci, logicamente: quanto è grande un campo da tennis? Come avrebbe potuto vedere la mia lingua a 30 metri di distanza? Ho la bocca grande, ma non vado certo in giro con la lingua di fuori! E poi, fino a un istante prima di colpire la palla, neppure io sapevo dove sarebbe andata. Quindi, spiacente: è una bella favola, simpatica, ma una favola».
Otto mesi in due diverse prigioni inglesi: ha mai avuto paura di morire?
«Due volte. La seconda alla fine, quando ormai mi ero organizzato bene».
Racconti.
«La mia cella era in fondo a un corridoio. Torno dal refettorio, e c’è una persona nuova nella cella del mio vicino e amico, Ike, un gigante muscoloso che godeva di enorme influenza. Non si fa mai: la tua cella è una zona sicura. Così gli dico: hei cosa fai lì? Si gira, io ho il vassoio del cibo in mano e comincia a urlarmi, a venirmi addosso. Io rispondo a tono. Per fortuna, in 7 o 8 arrivano alle mie spalle, mi proteggono, non vi dico cosa gli fanno. E mi riportano in cella. Arriva anche Ike, lo conosceva da prima, si scusa per lui. Io sono scosso, me la sono vista brutta».
E come finisce?
«Questo tizio a 18 anni aveva ucciso due persone. Tre giorni dopo, viene in lavanderia dove lavora Ike: cade in ginocchio davanti a me, mi chiede scusa, mi bacia la mano. Gli dico: non serve, qui è dura per tutti. Ho capito solo dopo che l’ha fatto per Ike. Io ero parte di un gruppo rispettato. E occorreva ripristinare il rispetto, o il ragazzo lì dentro non avrebbe avuto scampo. Il carcere è un posto duro, pericoloso, che ha regole proprie. Le prigioni sono gestite dai prigionieri, non dalle guardie. Nessuno ha idea di cosa succeda lì dentro...».
Parliamo di tennis. Nel gennaio 2022, quando era allenato da Piatti, lei è stato a un passo dal diventare coach di Sinner.
«Credevo fosse un segreto... Non ne ho mai parlato. È vero».
Perché non è successo?
«Da lì a due mesi, aspettavo la sentenza di Londra. Ho detto a Jannik: non so come finirà, non posso prendermi l’impegno. Ma non volevo lasciarlo a piedi, gli ho fatto un paio di nomi: uno era Darren Cahill. Per me, il migliore».
Ma se Cahill si ritira a fine stagione, Becker torna in lizza?
«Darren non smetterà. Quanto a me, ero convinto che Jannik potesse diventare il più forte. All’epoca doveva migliorare il servizio e il gioco di piedi ma era unico, di testa era già un portento. Oggi sono in un’altra fase della vita, la famiglia si allarga, ho un nuovo business. Non voglio stare così tanto on the road e forse il ruolo di coach comincia a starmi stretto».
Che giocatore sarebbe Sinner, oggi, con lei nell’angolo?
«Quattro Slam a 24 anni: non credo che avrei potuto fare meglio di Cahill e Vagnozzi. Quando è stato scelto non era famoso, ma pochi capiscono il gioco come Simone. Il successo del team Sinner parla da solo. Ed è incredibile, se si pensa che Jannik gioca seriamente solo da quando aveva 13-14 anni».
Il doping nel tennis esiste?
«Contano testa e personalità, e non conosco droghe che le migliorino. Ce ne sono che aumentano la resistenza e affrettano il recupero. Ma quando sei sulla palla break, sotto 5-4 nel quinto set, voi conoscete un farmaco che permetta di rimanere freddi come il ghiaccio e tirare un ace? Io no. Per tre persone metto la mano sul fuoco: Federer, Nadal, Djokovic».
Crede alla contaminazione involontaria di Sinner?
«Sì. Il doping è lontanissimo dal suo carattere. Mi fido meno di giocatori che magari hanno avuto una sola, straordinaria stagione sul rosso o sembrano fenomenali per due-tre tornei. Cose così puzzano un po’. Ma Jannik è tra i migliori da anni, i pesci grossi vengono testati. Una vita d’inferno: per 365 giorni all’anno devono dire dove dormono, dove mangiano. Metti che sto con una ragazza da Cipriani e arrivano per il test... Folle. L’antidoping oggi è un’enorme restrizione della libertà».
Lei in Davis era un leader, Boris. Come valuta la decisione di Jannik di disertare le finali di Bologna?
«Ho letto che si è alzato un polverone. Capisco che Nicola Pietrangeli disapprovi. Io la Davis l’ho vinta due volte, nell’88 e nell’89: l’anno seguente non la giocai. Avevo bisogno di una settimana extra di riposo e ritenevo di essermi speso a sufficienza per il mio Paese. Esattamente come Jannik».
C’è troppa pressione?
«Tendiamo a dimenticarci che il tennis è uno sport individuale. È maledettamente difficile restare al vertice. Se uno si fa male, la carriera è a rischio. Avete visto Rune: si è rotto il tendine d’Achille. In Italia tutti vogliono un pezzettino di Sinner. Lo invitano a Shanghai, a Riad, a Vienna. Da domenica prossima gli chiederanno di rivincere le Finals a Torino».
È successo anche a lei.
«Non ho mai voluto diventare una proprietà privata della Germania: cercai di proteggermi in tutti i modi. Arrivi a un punto in cui devi per forza dire dei no. Io tornai a giocare la Davis, Jannik farà lo stesso. Non siamo macchine. Non dico che faccia tutto alla perfezione: la comunicazione sulla Davis poteva avere un tempismo migliore, nelle interviste può fare progressi. Ma l’Italia è fortunata ad averlo».
È una generazione di giovani che sembra poco curiosa degli altri e del mondo.
«Sono d’accordo. Pretendiamo che questi ragazzi siano maturi, perfetti e invece loro chiedono solo di essere lasciati in pace, con il loro team. Non sanno nulla di politica e, spesso, nemmeno del Paese che rappresentano. Io, al contrario, sono convinto che per avere una lunga carriera si debbano coltivare altri interessi: il tennis, da solo, alla lunga annoia da morire. Quando hai vinto Vienna per la sesta volta, cosa ti cambia la settima? Anche l’entourage di questi ragazzi dovrebbe stimolarli con argomenti che non siano solo dritto e rovescio. Invece, è come se fossero incoraggiati a usare il cervello solo per il tennis: hanno tutto, non devono pensare. E a 30-35 anni, quando non c’è più un coach o il team a risolverti i problemi pratici, non sai nulla del mondo. E ti ritrovi spaesato, fuori dalla bolla».
Lei era un distruttore di bolle, Boris.
«Badate che riguarda tutti gli sport. Ma non è facile rompere la bolla. Non è da tutti. E allargando lo sguardo: questi giovani privi di interessi e curiosità sono gli stessi che, tra 10 anni, saranno imprenditori, politici, gente chiamata a far girare il mondo. Aiuto».
Lei in Germania è sempre sulla Bild.
«Dopo la vittoria a Wimbledon vennero da me e mi dissero: non prenderla sul personale, ora sei parte del nostro business model. Stiamo parlando del quotidiano tedesco più letto e potente. Mi spiegarono che tre temi fanno vendere di più: Hitler, Boris Becker e la riunificazione
. Oggi, a 58 anni, so come funziona: più una storia è negativa, più è letta».
Il suo libro è dedicato a Lilian. Mi ha salvato la vita, scrive nella dedica. Come?
«A Lilian e a mia madre».
Ci arriveremo.
«È difficile spiegare cosa abbia significato per me che una donna così giovane e così bella abbia scelto di aspettarmi mentre ero in galera. Dopo aver lasciato passare un anno prima di darmi il suo numero di telefono! Nel momento in cui ho pensato di non essere capace di avere una relazione sana, ecco Lilian. È sbucata dal nulla e non era uguale a nessuna donna che avessi incontrato in vita mia. Intanto non sapeva chi fosse Boris Becker. All’inizio mi sono quasi offeso, poi ho pensato che la vera magia fosse proprio questa. Mi ha scoperto a piccoli passi e io non mi sono più sentito in dovere di recitare un ruolo. Potevo essere me stesso, finalmente, e concedermi un po’ di onestà. Basta maschere: le ho indossate tutte, non ne voglio più. Questo sono io, le ho detto».

Aspettate un figlio: il suo quinto, il primo di Lilian. Sarà un padre diverso? Cosa la spaventa di più?
«Viviamo in un mondo pericoloso, volatile. Dove scoppierà la prossima guerra? Con internet e i social, siamo dappertutto in ogni momento: l’interconnessione ha creato una società molto più aggressiva e radicalizzata, sia a destra che a sinistra. La gente è delusa dai governi. Il gap tra ricchi e poveri si è allargato, ed è peggio perché, con i social, tutti si accorgono di tutto. Servono leader intelligenti per mantenere la pace. Personalmente, sono felice di vivere in Europa. Sono stato in America, in Inghilterra, ma l’Europa è casa mia».
Perché Milano?
«Ho giocato bene in questa città, ho vinto il torneo quattro volte; ho vestito sempre brand italiani. Mia moglie è nata a Roma. E avere un altro figlio a questa età mi dà l’opportunità di occuparmene più di quanto io abbia fatto in passato, se Lilian me lo permetterà».
E veniamo alla dedica per Elvira, sua madre. È un capitolo doloroso?
«Lo sarebbe stato di più se non fossi riuscito a rivederla, una volta uscito dalla prigione. Aveva una demenza avanzata, ma se fosse morta mentre ero dentro non me lo sarei mai perdonato. La vita ci ha concesso altri due Natali insieme. Era fisicamente lì, ma sentivo che la stavo perdendo lentamente. La morte è parte della vita ma, come cristiani, non parliamo abbastanza della fine. Se n’è andata a 89 anni, figlia di rifugiati, dopo aver perso tutto e avermi visto vincere tanto. Una sera si è addormentata, e non si è più svegliata. Una bella morte».
Milano ha i tram, come Leimen. Qual è il suo primo ricordo, Boris Franz Becker?
«Ho tre anni, mio padre taglia il manico a una Dunlop Max Play e me la regala. Comincio a palleggiare. Ricordo la sensazione della racchetta in mano.
Ricordo il tram: il capolinea era dietro casa nostra, lo vedevo arrivare dal tavolo della cucina e correvo per saltarci sopra. Ho avuto un’infanzia felice. Ricordo le vacanze sulle vostre montagne: Santa Cristina, la Val Gardena, Ortisei, la Pusteria. A papà piaceva guidare: caricava la macchina e partivamo. D’estate un paio di volte siamo stati a Milano Marittima. Esiste ancora?».