Corriere della Sera, 2 novembre 2025
Sterminò la famiglia a colpi di fucile. Evade dalla comunità 27 anni dopo
Lo stragista Elia Del Grande non è mai stato un uomo davvero in fuga. Almeno mai come adesso, sparito sì da qualche giorno. Un tempo infinito. Egli può essere ovunque. Ha portato morte, può portare ancora terrore, non si è pentito, è socialmente pericoloso – gli investigatori mappano specie le ultime conoscenze femminili; magari esse nascondono delle confidenze, magari han fornito covi, soldi per la latitanza, cellulari, Sim, vestiti; loro come i pregiudicati della zona, inclusi quelli legati al giro della contraffazione dei documenti d’identità. Piste italiane. E piste estere.
Come era, Del Grande sarebbe rimasto. Di carattere, di temperamento. Nonostante abbia scontato la pena in carcere (25 anni): uno collerico, pronto all’attacco improvviso, vincolato al suo passato denso, variegato e dannato, ogni droga assunta nonché un devastante disagio psichico, e la fatica della cerchia dei parenti e degli amici. Derisi e isolati dalla comunità che sprezzante catalogava il ragazzo quale il tipico matto del paese, una causa persa. E in difficoltà, parenti e amici, nel gestire quella fase di disturbi iniziata nell’adolescenza. Ma le fughe, si diceva: poche ore e lo catturarono dopo l’uccisione a fucilate del papà Elia (57 anni), del fratello Enrico (27) e della mamma Alida (53), in quel 7 gennaio 1998 nella villa di famiglia a Cadrezzate, provincia di Varese; Del Grande, 49 anni, pluri-omicida in quanto desideroso di «liberarsi» dei familiari, cercò d’evadere dal carcere di Pavia e lo presero subito; ora, l’allontanamento dal penitenziario-comunità a Castelfranco Emilia.
Una struttura circondata dai campi della provincia modenese che tutto è tranne, come viene ripetuto in queste ore successive alla diffusione della notizia (merito del quotidiano Resto del Carlino), che un posto abbandonato dallo Stato. Lo confermano i rapporti della puntuale associazione Antigone. La visita dello scorso dicembre ha registrato numeri non d’emergenza nel rapporto detenuti e agenti/operatori, per uno scenario «buono». Ci sono detenuti in regime di custodia attenuata e soggetti sottoposti a misure di sicurezza. Come Del Grande. Una decisione dei giudici per storie di litigi e persecuzioni contro i vicini. A settembre l’ingresso nel penitenziario-comunità, costituito da un immobile di due piani, e dotato di centro sportivo, sale di aggregazione, spazi lavanderia, laboratori per insegnare le capacità artigianali, una ludoteca per i colloqui con i figli piccoli; le celle hanno frigorifero e televisore. Un panorama che, com’è ovvio che sia, non prevede riduzioni delle misure di sicurezza.
Per il rigore dell’arte investigativa, nessuno esclude azioni di persone interne che abbiano aiutato Del Grande, scappato senza inventarsi soluzioni da film. Ha scavalcato il muro di cinta. Semplice. La fune era stata assemblata unendo fili elettrici. Una gran quantità. Che s’è procurato per tempo. Potrebbe aver nascosto il materiale, che intanto via via cresceva, in uno di quei laboratori. Oppure in cella. Ma non stava da solo. Sicché i compagni forse erano a conoscenza del piano. Sono stati i primi a esser stati interrogati: fonti del Corriere rivelano che avrebbero fornito elementi. In quel significativo lasso temporale di detenzione (all’inizio la condanna era di 30 anni, in seguito appunto ridotti a 25) Del Grande allestì una solida rete di conoscenze che avrebbe mantenuto anche scontata la condanna. Per tacere del fronte caraibico. Santo Domingo. L’«origine» del massacro. I giornali la definirono la «strage dei fornai»: papà Enea aveva ereditato un’azienda di panificazione avviata e conosciuta, una quotidianità di applicazione e fatica che irritava l’assassino. Lo irritavano il rispetto degli orari, la necessaria cura dei dettagli nel processo di produzione come il rispetto verso i clienti, lo irritavano le scadenze, lo irritava l’idea che in famiglia fosse scontato che avrebbe dovuto anch’egli mettersi a fare il pane.
In casa ci avevano provato e riprovato. Invano. Sudare per campare, lo opprimeva. Fin quando, accogliendo un desiderio di Elia (forse succube delle pressioni o minacce di una fidanzata nonché dei parenti di lei), il padre aveva comprato un ristorante a Santo Domingo intestandolo al ragazzo, e pure un night, affinché avesse non una ma addirittura due proprietà cui badare. Magari si sarebbe salvato. Niente. Del Grande voleva di più. Sembra che l’avesse irritato il no dei genitori al matrimonio con una giovane ballerina dominicana con cui avrebbe firmato la condivisione dei beni (c’era un impero immobiliare, ai Caraibi, andrebbe verificato, negli italici incroci della burocrazia, se per caso lo stragista abbia ereditato dei beni; è possibile).
Il 7 gennaio del 1998 era uscito con gli amici, a bere; e tirare cocaina. Era rientrato, aveva afferrato i fucili da caccia in garage e aveva cominciato lo sterminio. Far fuoco, far fuoco, senza mai esitare. Far fuoco.