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 2025  novembre 02 Domenica calendario

Blocco ai fondi Usa, caos buoni pasto. I giudici: usare le riserve d’emergenza

«Non voglio che gli americani abbiano fame solo perché i democratici radicali si rifiutano di riaprire il governo». Con queste parole sul suo social Truth, Donald Trump ha reagito venerdì sera alla decisione di due giudici federali che hanno ordinato alla sua amministrazione di usare i fondi di emergenza per garantire i pagamenti di novembre del programma Snap (Supplemental nutrition assistance Program), i buoni pasto che sfamano 42 milioni di americani. Il presidente ha dichiarato di aver incaricato i suoi legali di chiedere chiarimenti alla Corte su come finanziare legalmente il programma alimentare. «I nostri avvocati governativi non ritengono che abbiamo l’autorità legale per erogare lo Snap con alcuni fondi a nostra disposizione, e ora due Corti hanno espresso pareri contrastanti su ciò che possiamo e non possiamo fare», ha scritto Trump. «Se riceverò le opportune indicazioni legali, sarà un mio onore erogare i fondi», ha aggiunto. Le sentenze sono arrivate alla vigilia dei pagamenti. I giudici hanno stabilito che il dipartimento dell’Agricoltura deve attingere ai circa 6 miliardi del fondo di contingenza, anche se questa somma non basta a coprire i circa 8 miliardi necessari per i sussidi del mese.
Lo Snap fornisce in media 188 dollari al mese a persona a 42 milioni di beneficiari, essenziali per circa un americano su otto. Ne beneficiano famiglie a basso reddito, anziani, veterani, bambini. Persone che vivono spesso ai margini della società. Senza questi aiuti, milioni di cittadini si trovano davanti a una scelta impossibile: pagare l’affitto o comprare da mangiare. La crisi dei buoni pasto non è nuova nella storia degli shutdown Usa. Durante il blocco record del 2018-2019, durato 35 giorni sotto la prima presidenza Trump, il dipartimento dell’Agricoltura utilizzò proprio i fondi di contingenza per anticipare i pagamenti di febbraio, evitando che milioni di famiglie restassero senza assistenza. Allora funzionò, anche se il Government Accountability Office dichiarò dopo che l’uso di alcuni fondi fu tecnicamente illegale. Ma questa volta l’amministrazione Trump ha scelto una strada diversa, lo shutdown è iniziato il primo ottobre, quando il Congresso non è riuscito ad approvare la legge di Bilancio per il nuovo anno fiscale. Lo scontro nasce dallo scontro sui sussidi sanitari (introdotti da Obama e potenziati poi da Biden), che i democratici vogliono prorogare prima di riaprire il governo. I repubblicani controllano Camera e Senato, ma al Senato non hanno i 60 voti necessari per superare il cosiddetto filibuster, che permette alla minoranza di bloccare le leggi. Il risultato è una paralisi che ha già mandato in congedo forzato 750 mila dipendenti federali e causato ritardi negli aeroporti per carenza di controllori di volo.
Dal 1976 si contano una ventina di shutdown, ma quello attuale sta per diventare il terzo più lungo della storia. Senza accordo, scatta il blocco delle attività «non essenziali»: chiudono parchi nazionali e musei, si sospendono processi civili, si fermano i finanziamenti alle piccole imprese. I servizi vitali continuano, ma i dipendenti lavorano senza stipendio. Anche se i giudici hanno ordinato il pagamento, i ritardi sono inevitabili. Il processo di ricarica delle carte elettroniche con cui i beneficiari acquistano il cibo richiede una o due settimane. Nel frattempo, le banche alimentari non possono sostituire i sussidi federali. Alcuni Stati hanno annunciato di voler utilizzare fondi propri per tamponare l’emergenza. Cynthia Brown, dipendente federale di 53 anni, ha raccontato al Washington Post di sopravvivere con caffè e frullati proteici, dopo aver venduto tutto quello che aveva in casa. Le hanno anche pignorato l’auto.
In questo clima di paralisi politica, arriva un segnale dal fronte democratico. Secondo il New York Times, l’ex presidente Barack Obama ieri ha telefonato al candidato sindaco di New York, Zohran Mamdani, per lodarne la campagna e offrirsi come interlocutore e punto di riferimento per il futuro. Un gesto simbolico in un Paese dove tutto, da un mese, sembra fermo.