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 2025  novembre 01 Sabato calendario

«Dei figli sono la più simile a lui. Ci siamo salutati con la promessa di un ultimo giro in auto insieme. Abramovich mi è stata vicina»

Per i nipoti Mario e Tito, di 8 e 6 anni, lui era «il nonno delle foto». Del resto, nella loro bella casa di Amsterdam, c’è sempre stato «il muro di Toscani», una parete con i suoi ritratti a Andy Warhol, a Lou Reed e a Muhammad Ali, più l’istantanea che ogni Natale faceva a tutta la famiglia. Ce lo racconta Lola, la figlia quarantenne di Oliviero Toscani, il fotografo scomparso il 13 gennaio, consumato dall’amiloidosi. Domani il suo nome sarà inciso nel marmo del Famedio a Milano. A ricordarlo ci saranno Lola con Rocco, nati dall’amore del padre per Kirsti Moseng, e il primogenito Alexandre con Olivia, figli di altre due relazioni. Mancano Sabina, la sorella di Olivia, che vive a Miami, e l’ultimogenita Ali, che vive in Repubblica Domenicana, dove ora c’è anche la mamma.
Lola, a quali ricordi di suo padre è più legata?
«Ai nostri viaggi in macchina, quando eravamo soli. Parlare con lui era bello perché riusciva a sorprenderti sempre, aveva un punto di vista originale su ogni cosa».
Un’altra immagine?
«Una sera eravamo appena rientrati a casa, a Casale Marittimo, e avevamo parcheggiato l’auto un po’ più lontano del solito. D’istinto accesi la torcia del telefonino, ma lui disse di spegnerla, e 15 secondi dopo aggiunse: “Vedi? È solo questione di abituarsi”. Lui era così, dovevi avere fiducia: nella vita, nelle persone».
Che effetto le fece leggere l’intervista al Corriere in cui parlò della malattia?
«Mentre ero sotto la doccia mio marito venne a dirmi che dovevo leggere una cosa: lui non ci aveva avvisati di averla fatta. Quando risponde “Vivere vuol dire anche morire, eppure nessuno parla della morte. Si vive come imbrogliandosi, perdendo tempo”, sembrano i versi di una canzone. Mi pare di sentirlo, quando passava vicino alla nostra stanza e diceva: “Ma dormono ancora?”. Erano le 8.30 e a quel punto dovevi saltare giù dal letto per renderti disponibile».
Disponibile a fare cosa?
«Qualsiasi cosa, da andare a cavallo a “fare le robe”. Ci voleva vicini tutto il tempo».
Forse perché c’eravate poco, in casa...
«Nemmeno lui c’era tanto...».
C’era differenza fra il papà pubblico e quello privato?
«No: quello che si vedeva, era. Poi ogni figlio ha avuto con lui un rapporto diverso. Per esempio, gli piaceva accompagnarmi a scuola con la Porsche gialla decapottabile. Io avrei preferito spararmi, piuttosto. Mia sorella Ali, invece, si metteva in piedi sul sedile, ed era felice».
Com’era, a scuola, essere figli di Oliviero Toscani?
«Quando studiavo a Cecina, alle medie, lui scriveva una colonna sul Tirreno dove sparava a zero sulle cose che non gli piacevano, dai cacciatori alle rotonde, dalle villette a schiera alla nuova chiesa. Peccato che io dovessi stare in classe con i figli dei cacciatori o di quelli che vivevano nelle villette. Però questo mi ha insegnato a vedere le cose anche da un altro punto di vista. Lui era un uomo d’azione».
Anche lei lo è. Per suo padre era la figlia che più gli somigliava di carattere, perché non stava mai ferma.
«In effetti ho traslocato ogni tre anni. Poi a Milano dovevo stare un mese e ci sono rimasta 12 anni. Una volta la criticai davanti a mia zia Marirosa e lei mi caricò in macchina per mostrarmi i viali e le cose che la rendevano unica».
In cos’altro pensa di somigliare a suo padre?
«Penso di aver preso un po’ del suo rigore, la serietà nel fare le cose. Ho avuto il privilegio di vederlo lavorare. Si concentrava tantissimo, curava ogni dettaglio».
E cosa spera di ereditare?
«L’urgenza rispetto alle ingiustizie, e poi la curiosità. Parlava con chiunque, in spiaggia non c’era ambulante che non fermasse e cui non chiedesse da dove veniva, cosa vendeva, chi comprava».
Quale foto o campagna ama di più?
«Una, forse, è quella delle manette. Ma è impossibile scegliere. A me piacciono le sue composizioni, quando metteva insieme i gruppi. Qualche volta gli facevo da modella, se un bambino si stancava. Lui sistemava tutto, le luci, le ombre, l’occhio un po’ aperto o chiuso, quanto vicini dovevamo stare: ogni cosa era studiata al millimetro. E quando era tutto pronto, gli vedevi quella luce negli occhi e da compositore si trasformava in regista».
Litigavate?
«Costantemente. Io mi occupo di comunicazione e abbiamo anche lavorato insieme, in quell’età speciale dei 23 anni, quando ti sembra di sapere tutto solo perché hai fatto una cosa... Papà ha sempre amato circondarsi di giovani, confrontarsi con loro».
C’è una cosa ricorrente che diceva sul lavoro?
«Che bisogna incatenarsi a un progetto, perché è l’unico modo di essere liberi».
Degli straordinari personaggi che ha conosciuto, chi avrebbe voluto incontrare?
«Per ognuno diceva: “È amico mio!”. Forse mi sarebbe piaciuto conoscere don Milani, credo che l’abbia profondamente influenzato nel suo impegno sociale, nell’importanza della comunità».
Lei perché si chiama Lola?
«Gli piaceva il nome, aveva già provato a darlo alle prime due figlie, ma non c’era riuscito. Io ho una mia teoria...».
Quale?
«Sua mamma si chiamava Dolores e l’abbreviativo è Lola. Lui, invece, mi diceva che era un nome corto, sexy e che fa venire il carattere. Beh, pure crescere come Rocco e Ali è stato un esercizio mica male».
L’ultimo progetto che lei e i suoi fratelli state portando in giro è «Razza Umana». Oliviero Toscani disse che «non c’è bisogno di fotografare la guerra per rappresentare il disastro che compie nella società: basta guardare due occhi che ti guardano con terrore e capisci cosa è la guerra».
«Il ritratto e l’aspetto umano è sempre stato un punto chiave del suo modo di intendere la fotografia. Non a caso è stato uno dei primi a fotografare persone vere e non modelli. Lui ha inteso “Razza Umana” come un never ending project, la nostra idea è di portarla dove può aprire dialoghi, dove c’è interesse a guardarsi negli occhi».
Siete stati a Pisa.
«”Razza Umana” vive benissimo all’aperto: immagini di trovarsi all’altezza degli occhi, degli sguardi e delle emozioni che mio padre ha catturato in questi pannelli da due metri per tre. Noi vogliamo raccogliere nuovi volti e nuove storie: fermiamo le persone, facciamo firmare la liberatoria e scattiamo una foto tessera inseguendo la luce come ci ha insegnato lui».
Scatta anche lei?
«Io no, ma Rocco e Ali sì. Rocco è un bravissimo fotografo, finora si è dedicato a seguire l’impresa agricola avviata da papà, con il vino, i cavalli, la campagna».
Dove riposa suo padre?
«Vent’anni fa aveva voluto piantare i cipressi, e noi non capivamo perché. Il giorno in cui lo abbiamo salutato abbiamo eseguito le sue volontà ed è stata una festa: abbiamo invitato i suoi amici, abbiamo offerto il suo vino e abbiamo fatto una passeggiata fino ai cipressi, ascoltando Bob Dylan. Lì, in cima alla collina, con la vista più bella, con il mare e il vento, abbiamo lasciato andare le sue ceneri tra i cipressi».
È riuscita a salutarlo?
«Sono felice di essere andata a trovarlo prima dell’ultimo ricovero. Ci siamo salutati con la promessa che a febbraio lo avrei portato a fare un po’ di curve in macchina. Eravamo impreparati... Glielo dissi: ma papà, tu hai visto i tuoi genitori invecchiare, non hai pensato a te? Rispose che lui era della generazione forever young, non doveva invecchiare».
Parlare della malattia ha scatenato una valanga di affetto. Chi l’ha sorpresa di più?
«Fra tutte le relazioni che mio padre ha coltivato c’è l’amicizia di Marina Abramovich, che per me è stata un regalo. E poi mi ha sorpreso e rincuorato la tenerezza che ha suscitato in tutte le persone che lo hanno conosciuto, le più diverse tra loro. Luciano Benetton ci è stato e ci è ancora molto vicino».
Non le ho chiesto niente di sua mamma. Come sta?
«Lei e papà sono stati insieme più di 50 anni: molto più di metà della sua vita. Si sta adattando. Lui è sempre stato un uomo molto ingombrante, fisicamente, di volume, di personalità. Sia in positivo che in negativo. Abituarsi a non avere più né l’uno né l’altro è un esercizio non facile».

Lo ha sognato?
«Sì, l’ultimo è un sogno assurdo, perché è una cosa che non abbiamo mai fatto insieme. E invece stavamo ballando, stretti stretti. Mi sono svegliata con quella sensazione proprio fisica e allora ho detto: va bene così, ciao papà».