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 2025  novembre 01 Sabato calendario

Quando i neofascisti aggredirono Pasolini in piazza di Spagna

Esiste un episodio drammatico e inquietante della vita di Pier Paolo Pasolini, che non viene mai ricordato nelle sue biografie. Risale all’ultimo periodo della sua esistenza ed è caduto nel dimenticatoio probabilmente perché fu egli stesso a non volere che se ne parlasse. Ne è rimasta testimonianza in un documento firmato da Laura Betti, interprete e grande amica dello scrittore-regista, dall’avvocato Nino Marazzita (che con Guido Calvi, rappresentò la famiglia Pasolini nel corso del processo per il suo omicidio), dal giurista Stefano Rodotà, dalla saggista Carla Rodotà e dai magistrati Corradino Castriota, Franco Misiani e Luigi Saraceni di Magistratura Democratica. Ne riferirono brevemente in un libro uscito due anni dopo l’accaduto, Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte (Garzanti, 1977), curato dalla stessa Betti. I fatti: Pasolini fu violentemente aggredito in Piazza di Spagna, a Roma, alle due del pomeriggio di un giorno imprecisato intorno agli inizi di ottobre del 1975. Mancava appena un mese alla tragica notte fra il 1 e il 2 novembre in cui sarebbe stato trucidato all’Idroscalo di Ostia. Gli assalitori erano «un gruppetto di giovani” neofascisti e neonazisti (alcuni ostentavano delle svastiche), armati di catene. Pasolini camminava da solo nella piazza e, appena lo riconobbero, i neofascisti cominciarono ad insultarlo, quindi gli si avventarono contro per picchiarlo. Lo scrittore si difese energicamente ma non riuscì ad impedire alcuni dolorosi colpi di catena, che gli procurarono contusioni con perdite di sangue. I passanti erano terrorizzati e nessuno intervenne. Dopo pochi, interminabili minuti, i neofascisti scapparono, probabilmente per il timore che qualcuno potesse chiamare la polizia. Ma questo non avvenne e infatti non risulta nessun verbale dell’accaduto. Pasolini raggiunse più rapidamente che poté la propria automobile, la stessa Alfa Romeo Giulia 2000 GT dell’ultima notte, e ritornò a casa, in via Eufrate. La sua preoccupazione principale, in quel momento, era di evitare che la madre Susanna si accorgesse delle ferite che aveva riportato. Che potesse spaventarsi vedendolo sanguinare e con alcuni indumenti laceri. Di questa apprensione troviamo un’eco nelle parole del cugino e biografo di Pasolini, Nico Naldini, quando, riferendosi alla notte in cui fu assassinato e al fatto che la camicia di Pasolini era stata ritrovata intatta e intrisa di sangue, scrisse: «Sento che quella camicia, usata come tampone, doveva in qualche modo nascondere o rimediare lo spettacolo delle ferite e rendere il suo viso sopportabile agli occhi di sua madre che lo stava attendendo a casa». Il luogo, piazza di Spagna, era stranamente lo stesso dove Pasolini, appena pochi giorni prima, il 27 settembre 1975, aveva partecipato ad una manifestazione antifranchista di solidarietà con il popolo basco accanto a Walter Veltroni e Ferdinando Adornato. Sembra improbabile un nesso tra questa aggressione e quella dell’Idroscalo di Ostia, ma non bisogna sottovalutare le minacce di morte che, ad un telefono degli studi di Cinecittà, erano state proferite da ignoti contro il regista durante le riprese del film Salò o le 120 giornate di Sodoma. Dato che la stampa quotidiana e i settimanali avevano pubblicato innumerevoli articoli e fotografie del set del film, era già una notizia di dominio pubblico che fosse ambientato negli anni della Repubblica Sociale fascista e che quattro autorità repubblichine venissero raffigurate come sodomiti. Per i nostalgici e i neofascisti, la Repubblica di Salò rappresentava un vero e proprio culto ed è assai probabile che ci fosse la loro mano dietro queste minacce telefoniche contro Pasolini, «colpevole» di avere profanato il loro «credo», come è possibile che si nascondesse qualcuno di loro anche tra i mandanti del suo omicidio. Evidentemente, l’aggressione di Piazza di Spagna nasce dalla convinzione abietta che si dovesse «punire» Pasolini e non sappiamo quale grado di violenza avrebbe raggiunto se non si fosse verificata in pieno giorno e in un luogo affollato. Sappiamo che atti del genere non costituivano una novità perché Pasolini era già stato aggredito più volte. In due casi ci furono delle denunce (non da parte sua) e quindi rimane una dettagliata documentazione degli eventi: il 22 settembre 1962, al cinema Quattro Fontane, dove era in programmazione il secondo film di Pasolini, Mamma Roma, alla fine dell’ultimo spettacolo, a mezzanotte e cinquanta, il dirigente dell’Associazione studentesca Giovane Italia Flavio Campo, vent’anni, si parò di fronte a Pasolini, che aveva assistito alla proiezione e gli urlò: «in nome della Gioventù nazionale, fai schifo!» Pasolini reagì schiaffeggiandolo e a sua volta Campo, spalleggiato da Serafino Di Luia, esponente di Avanguardia Nazionale anch’egli ventenne, alzò le mani contro di lui, prima che la situazione degenerasse in una rissa che coinvolse anche Sergio Citti e Piero Morgia, amici di Pasolini. Due anni dopo, il 13 febbraio 1964, il neofascista Paolo Pecoriello, appena diciannovenne, preparò, ancora con l’aiuto di Campo, un agguato contro Pasolini che doveva tenere una conferenza alla Casa dello studente a Roma. Pecoriello gli versò addosso della vernice e poi si diede alla fuga. Un’automobile di proprietà del deputato missino Pino Romualdi, con il figlio Adriano alla guida, investì deliberatamente Marco Davoli e Aldo Venturi, amici dello scrittore che erano nei paraggi. In nessuno dei due casi Pasolini sporse denuncia e lo stesso evitò di fare anche in seguito. È interessante ricordare l’unico episodio in cui lo scrittore, invece, decise di sporgere denuncia perché si tratta di una vicenda significativa. Bisogna risalire alla fine di dicembre del 1950, quando Pasolini, ancora sconosciuto, si era già stabilito a Roma da una decina di mesi e viveva precariamente insegnando in una scuola privata di Ciampino dopo la cacciata dal Friuli, la perdita del lavoro di insegnante e l’espulsione dal PCI in seguito all’accusa di «corruzione di minori». Il 31 dicembre 1950 si trovava a Chioggia per festeggiare il Capodanno con il cugino Nico Naldini a casa di Giovanni Comisso. Dopo il Capodanno, uscì nelle strade della città col cugino e incontrò un gruppo di giovani pescatori che lo indussero a credere di essere disponibili ad un’orgia omoerotica con l’intento, in realtà, di derubarlo del portafogli. Pasolini ritrovò i ragazzi – e il portafogli vuoto – in un’osteria, dove però venne notato da un marinaio graduato che pretese li denunciasse ai carabinieri. Per liberarsi dell’uomo, Pasolini raggiunse il comando con l’intenzione di denunciare i ragazzi ma il marinaio lo precedette e informò i carabinieri che si trattava di un omosessuale adescatore. Allora le forze dell’ordine, quando videro entrare Pasolini e Naldini, li sbatterono in camera di sicurezza con l’accusa pretestuosa di ubriachezza molesta. Grazie all’interessamento di Comisso, Pasolini venne rilasciato il giorno dopo con un decreto penale di condanna tramutato in contravvenzione pecuniaria di cinquemila lire di ammenda ciascuno. Fu la sua unica esperienza in carcere e, paradossalmente, anche l’unico caso in cui aveva fatto ricorso alle forze dell’ordine, incorrendo così proprio nella loro omofobia. Da allora, fino al novembre 1975, Pasolini affronterà le minacce e i pericoli come se le forze dell’ordine non esistessero. Ma una delle fotografie scattate la mattina del 2 novembre, ritrae un poliziotto chino sul suo cadavere sfigurato e sul volto del tutore dell’ordine appare un evidente ghigno di scherno. Che dice tutto.