Domani, 1 novembre 2025
I ricordi di Nevio Scala
Ènato agricoltore (77 anni fa) e agricoltore morirà (nel 2125, a 177 anni). In mezzo, la «parentesi del calcio» – così la chiama e la considera – lunga oltre 40 anni. Una parentesi che gli ha procurato successo, soddisfazione e guadagni, sufficienti per ricomprare la cascina dove era cresciuto e mettere su un’azienda agricola raffinatissima e di prodotti biologici buonissimi. Un cerchio che si è chiuso.
Nevio Scala è uno dei pochi ad essere arrivato in Serie A senza passare per le scuole calcio (non c’erano) o per i campi dilettantistici (c’erano, ma lui lavorava quelli veri, insieme ai genitori).
«L’unico campo sportivo, se così si può dire, era quello della parrocchia» a Lozzo Atestino, vicino a Padova, ai piedi dei Colli Euganei.
Il pallone come unica catechesi possibile tra il prete e i ragazzi.
«Un giorno ci portarono a Tolmezzo, in Friuli, per un provino insieme a decine di altri ragazzini, per noi era una gita, c’erano degli osservatori, dopo poco tempo mi arrivò l’invito per due giorni a Milanello».
La chiamata di Liedholm Tipo andare sulla Luna: «Non avevo la più pallida idea di dove si trovasse e cosa fosse Milanello, e poi non ero mai salito su un treno». Salì.
A Milanello, a dirigere la partitella, c’era uno svedese, Nils Liedholm, che diventerà il suo secondo papà: «A un certo punto fermò il gioco, e mi chiese come mi chiamavo, da dove venivo, che scuola frequentavo. Due settimane dopo sbucò tra i filari delle nostre vigne, per chiedere ai miei genitori il permesso di portarmi a Milano». E loro?
«Ovviamente risposero “No”.
Avevo 13-14 anni, ero a tutti gli effetti una forza lavoro, braccia su cui contare, guidavo il trattore».
Si convinsero poco dopo («furono bravissimi, capirono che non stavo inseguendo un sogno – che in realtà, nel calcio, non ho mai avuto – ma che potesse esserci un’altra vita, oltre Lozzo»). Da mezzadro a mezz’ala, il passo decisivo. E così il giovanissimo Nevio saluta il paesino – ci tornerà a ogni giorno di riposo – prende il diploma da geometra e gira l’Italia da centrocampista (di fatica, ovviamente): Milan (dove vince campionato e coppe), Inter, Roma, Fiorentina e altre piazze importanti.
A fine carriera, quando sta per tornare a Lozzo, inizia un altro “mestiere” – «perché la passione vera è solo quella per la terra» – inaspettato: l’allenatore. Inizia vicino a casa (giovanili del Vicenza), poi va nel profondo Sud, Reggio Calabria (promozione in B, e quasi in A), quindi Parma dove diventa l’emblema della provincia che vince: non un anno (quello è successo anche altrove), ma aprendo un ciclo.
La scuola Parma «Sono stati sette anni favolosi, un mix di straordinaria bellezza: presidenza forte – prima Ceresini, poi Pedraneschi con dietro la Parmalat del cavalier Tanzi – un preparatore atletico super come Ivan Carminati e i calciatori che legarono subito.
Quando tutto si lega così, nessun traguardo è irraggiungibile».
Nessuno lo ha mai sentito dire «Il mio calcio» o robe simili: «Non si inventa nulla, il calcio è sempre quello. Non ero certo il tipo di mettermi a fare, a tavola, gli schemi con piatti, bicchieri e pezzi di pane, come facevano altri. I miei discorsi, più che il 5-3-2 e 4-4-3, puntavano all’anima dei miei calciatori, dicevo loro che umiltà e semplicità sono le ali per raggiungere le grandi imprese, dovevano pensare a divertirsi e a far divertire».
Il suo Parma fece scuola. «Non era un gruppo di campioni già fatti, crescemmo insieme. Ne cito uno, Alessandro Melli: scartato da tecnici come Sacchi, Zeman, non so se sarebbe diventato Melli senza Parma».
Serve poco citare le vittorie (Coppa Italia, Coppa Uefa, Coppa delle Coppe), le altre perse di un soffio, lo scudetto sfiorato: «Un allenatore non si giudica dai trofei vinti, ma da quello che lascia dietro di sé. Se torni in una città dove hai allenato e la gente ti ferma dopo tanti anni e ti rimpiange – a me è successo anche di recente, al Tardini – significa che la semina è stata buona. Se nessuno o pochi dei tuoi ragazzi o dei tuoi collaboratori si fa vivo, puoi aver vinto anche tutto, ma ti mancherà sempre qualcosa».
Trenta anni fa esatti, novembre 1995, fece debuttare il 17enne Buffon, in Milan-Parma.
«Infortunatosi Bucci, toccava al 12esimo, Nista. Il venerdì aggregammo anche questo giovane della Primavera, Buffon.
A fine allenamento, quando si prova doppia sponda e tiro, nessuno riusciva a segnargli.
Chiesi sottovoce al preparatore dei portieri: stai vedendo anche tu ciò che vedo io? Risposta: Sì».
Disse al ragazzino che stava pensando di farlo debuttare a San Siro. Risposta: «Non c’è problema».
Beh, uno in realtà ce n’era: dirlo a Nista. «Appena lo incrociai, mi anticipò: “Mister, ho visto tutto anche io, faccia quello che pensa giusto”, il clima tra di noi era questo».
Stalle, stelle e ritorno Il Parma seguì poi la parabola dei Tanzi, della Parmalat, dalle stalle (il latte, appunto) alle stelle, e poi di nuovo alle stalle, finanza e galera. «Delle vicende giudiziarie non so. Ricordo quando, con il permesso del giudice, insieme a due giocatori andammo a trovare il patron agli arresti domiciliari. La villa spoglia, senza quadri, un solo divano, dove penso dormisse il Cavaliere.
Una parabola umana incredibile, dolorosa, ma anche formativa, a saperla leggere».
Poi altre piazze, con meno successi. A Perugia, dove retrocede in B, una mattina si sveglia e non ritrova più il (futuro) cittì della Nazionale, Gattuso. «Rino aveva deciso di andare in Scozia, al Glasgow Rangers, se ne andò nottetempo».
Lo sente ancora? «No». Il collega Beppe Materazzi lo pregò di prendere sotto la sua ala il figliolo, Marco, più che per una improbabile carriera calcistica, per guidarlo nella crescita come uomo. È diventato campione del mondo.
A Dortmund vince la Coppa intercontinentale, poi Turchia, gli ultimi anni in panchina li trascorre in Ucraina e in Russia (pensa te...) vincendo ovunque.
«Il calcio apre porte impensate, sbaglia chi pensa duri solo 90 minuti. Un giorno, in Ucraina, vado a caccia in un luogo sperduto. Mi imbatto in un capanno fatiscente, penso a un punto di appostamento. Invece ci abita un anziano, barba lunghissima, povero. Appena mi vede, dice: “Trainer Shakhtar”, e divide con me il poco che ha, patate, vino, frutta. In Russia, paese bellissimo, ogni settimana mi portavano a visitare palazzi e monasteri chiusi ai turisti. Una sorpresa continua».
Preso dall’azienda agricola tra botti, uve, vigne e orto, Nevio Scala segue poco o niente il calcio attuale. «Mi intriga Gasperini, mi piaceva il suo lavoro all’Atalanta, spero che faccia qualcosa di simile – non di uguale, eh... – a Roma».
Quando gli dici che Lamine Yamal forse non farà più autografi gratis, resta a bocca aperta: «Mi dica che non è vero, la prego».
La cronaca calcistica (Champions, campionato, Nazionale) lo appassiona poco.
Ma se gli chiedi il nome del sacerdote dell’oratorio, dove tutto iniziò, gli occhi si illuminano e risponde come se stesse parlando di cose di due ore fa: «Don Samuele! E poi don Alfonso, prima hanno fatto il campo per farci giocare, poi ci hanno costruito sopra la chiesa, che, rispetto al calcio, ha sempre il sopravvento». Amen.