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 2025  ottobre 31 Venerdì calendario

Il brigantaggio nel Sud dopo l’unità d’Italia

Non era la negazione di Dio eretta a sistema di governo, e neppure la terra dei fiori. Ma il Meridione fu davvero lo scenario de La prima guerra civile tra italiani? Con questo titolo Gianni Oliva ha dato alle stampe per Mondadori (228 pp, 20 euro) la sua rilettura di Rivolte e repressione nel Mezzogiorno dopo l’unità d’Italia, periodo peraltro tirato per la giacca dalla retorica e dal revisionismo: da un lato la vecchia necessità di confezionare una versione mielosa e nobilitata dei fatti del 1860-1861, a onore e gloria dei Savoia padri della Patria, e dall’altro un recente revanscismo di matrice neoborbonica fuori dal tempo e dalla storia, temi miscelati con omissioni, manicheismi, partigianerie, addolcimenti ed esasperazioni. Aspetti sui quali si è soffermato adesso Oliva con un saggio dal ritmo serrato. La frase di Lord Gladstone, che inchiodava i Borbone alle loro (ir)responsabilità, non rispecchiava affatto la situazione del Regno delle Due Sicilie, e non certo per la prima ferrovia italiana (Napoli-Portici) e i primi piroscafi a vapore. Poi, a scombussolare tutto, lo sbarco a Marsala di Giuseppe Garibaldi, con la complicità e i finanziamenti inglesi. Il “Tessitore” Cavour non aveva avuto alcuna intenzione di concepire il nuovo regno di Vittorio Emanuele II dalle Alpi alla Sicilia, e si sarebbe limitato al nord Italia, ma doveva impedire una deriva repubblicana innescata dai Mille e dal loro rivoluzionario condottiero che non aveva una prospettiva politica dell’impresa. E così l’esercito regolare scese lungo la Penisola, batté a Castelfidardo l’esercito del Papa con preavviso di sfratto che sarebbe arrivato a Roma nel 1870, invase il
Regno delle Due Sicilie senza neanche dichiarare guerra, e poi liquidò quello che restava dei borbonici a Gaeta; ma solo dopo aver ricevuto da Garibaldi, gratis, il frutto delle sue conquiste, e aver messo le mani sulle riserve auree del Banco di Napoli, la vera ricchezza del sud. Quello che accadde poi, non previsto e sfuggito di mano, fu un coacervo esplosivo di legittimismo, ribellione, criminalità, resistenza, vendette, idealismi, odi, rabbia sociale, illusioni, trasformismi, eccidi, fideismo. Tutto in una parola: brigantaggio. E fu un bagno di sangue.
Tra italiani? Sì, se nel senso di abitanti in quella che per Metternich era un’“espressione geografica”. Guerra civile, come sostiene Oliva? Forse no. Il nuovo padrone sabaudo era visto straniero e nemico, mica fratello come predicavano le élites senza popolo in quella guerra tra cugini, Vittorio Emanuele II e Francesco II, che sbandieravano pure lo stesso tricolore per quanto col diverso blasone dinastico al centro. Il nuovo Regno d’Italia, proclamato il 17 marzo 1861 mentre la fortezza borbonica di Civitella del Tronto all’estremo nord degli Abruzzi resisteva ancora, fu messo subito a dura prova e reagì nell’unico modo in cui poteva e sapeva: la forza. Altro che vulgata risorgimentale dei fratelli d’Italia.
I piemontesi consideravano i meridionali poco meno che selvaggi (“affricani”, com’è riportato in atti parlamentari) e si pensò di deportarli in massa in qualche sperduta località come il Mozambico; dei prigionieri ex borbonici molti morirono di stenti nella famigerata prigione di Fenestrelle e migliaia vennero venduti a buon peso agli americani a corto di soldati per combattere nella guerra civile, che non era certamente la loro. Il governo italiano per reprimere il brigantaggio inviò a sud più militari che in tutte e tre le guerre d’indipendenza, pari a metà dell’intero esercito e un terzo dei Carabinieri. Non è solo un dato statistico, perché fu guerra dura, spietata, draconiana, come ha accuratamente descritto già dal 2010 Giordano Bruno Guerri in Il sangue del sud e Il bosco nel cuore: paesi a ferro e fuoco, rappresaglie, esecuzioni sommarie, stupri, evirazioni, teste spiccate e portate su un palo, legge marziale, leggi speciali, stati d’assedio. Un’anticipazione degli orrori del ‘900.
La prima guerra civile di Oliva, pur suggestiva, ha più valenza editoriale che fattuale. Per aversi la guerra tra italiani occorreva infatti la consapevolezza di essere e sentirsi italiani al di là delle barriere di lingua, costumi e persino mentali. Il Regno delle Due Sicilie, che non era il regno dei fiori com’è inciso sulla pietra dei briganti sulla Majella, dove non pagò subito col sangue la sutura brutale dell’unificazione, pagò con l’apertura della piaga dell’emigrazione durata un secolo. Aveva ragione Massimo D’Azeglio che fare gli italiani sarebbe stato più difficile che fare l’Italia. Vittorio Emanuele II se n’era proclamato re per grazia di Dio (indimostrabile) e volontà della nazione (una minorità numericamente irrilevante che votò ai plebisciti) senza cambiarsi neanche il nome ed imponendo al sud il sistema piemontese. Più annessione, completata nel 1870, che unificazione.