corriere.it, 30 ottobre 2025
Povertà e ritiro sociale: 9,3 milioni di italiani soffrono la solitudine
Per alcuni italiani un po’ di solitudine è un desiderio, ma per molti, troppi, è una condanna. Perché amplifica le povertà e le difficoltà. La densità di relazioni sociali è in realtà un’apparenza, perché con la crescita dell’età media aumenta anche la solitudine che avvolge la vita delle persone, soprattutto anziane, di quelle con disabilità e immigrate. Ma nella spirale della solitudine scivolano anche i giovani. I dati statistici e le ricerche sulle persone sole di Eurostat e Istat parlano chiaro: nel nostro Paese in 9,3 milioni si sentono soli e quasi la metà ha più di 65 anni. Evidenze riprese e commentate da Percorsi di secondo welfare che ha dedicato al tema il primo numero della sua nuova rivista divulgativa «Nessi». «Fra le sfide sociali di cui spesso parliamo – spiega Franca Maino, direttrice scientifica di Percorsi di secondo welfare e docente all’Università degli Studi di Milano – va aggiunta quella della solitudine, per come cambia la struttura familiare e per come è cambiata la società. Essere soli amplifica i rischi presenti e futuri. Significa essere più poveri: di relazioni, di contatti, avere meno possibilità di interazione con altri e questo tipo di povertà si aggiunge ad altre forme non solo materiali. Ma che toccano varie sfere della vita delle persone, alimentare, lavorativa, sanitaria, e dei legami sociali».
Le situazioni toccano la quotidianità di tanti. Chi si trova in emergenza per un problema sanitario, un lutto o la perdita del lavoro non sa a chi rivolgersi, come affrontarlo, come gestire le ansie generate e superarlo. Non avere relazioni su cui poter contare cronicizza i problemi e spinge a una sorta di ritiro sociale: ci chiudiamo in casa, si esce poco, non ci rivolgiamo a servizi e non condividiamo ciò che viviamo, amplificando la sensazione che quel problema sia insormontabile. «Invece, nel dialogo e nel confronto con gli altri – spiega Maino – non solo si possono trovare soluzioni, ma rendersi conto che altri sperimentano situazioni analoghe. E questo dà sollievo».
Un tempo i «legami forti» – familiari e non solo – erano visti con sospetto, perché fautori di forme di nepotismo o familismo amorale, restringendo il desiderio di autonomia. Ma oggi possono produrre senso di appartenenza.
«Sono anche quelli da cui ci si aspetta maggiormente solidarietà e sostegno in caso di bisogno. Per questo – sostiene la sociologa Chiara Saraceno, che ne ha scritto per Nessi – giocano un ruolo importante, anche se con diversa intensità, lungo tutto l’arco della vita. Possono essere più o meno numerosi e soprattutto più o meno differenziati per tipo di legame, che siano i familiari più prossimi o gli amici più vicini. La povertà di legami forti, quindi, non riguarda solo la mancanza di relazioni familiari significative, il sentirsi soli, incompresi, non amati in famiglia. Riguarda anche l’assenza di persone su cui si può contare anche fuori e talvolta in alternativa della famiglia».
Le trasformazioni sociali hanno ridotto la cerchia prossima familiare e parentale dei legami sociali, ma sono stati messi in discussione anche quelli di vicinato, amicali e i rapporti nelle comunità in cui viviamo. Tutto questo avrà un impatto anche dal punto di vista della capacità di reagire ai cambiamenti che ognuno ha nella vita: quando va tutto bene i problemi sono relativi ma, in un sistema in cui il welfare è sempre più fragile, non poter contare sul sostegno degli altri è un’ulteriore grande sfida.
Vulnerabili
Da questo punto di vista il futuro non è roseo: Istat ha stimato che nel 2043 gli anziani soli raggiungeranno 6,2 milioni, il 57,7 per cento dei 10,7 milioni di persone che si prevede vivranno sole. La solitudine e la povertà relazionale possono essere affrontate. «Si vive più a lungo – commenta ancora Maino – ed è una bella cosa, ma emergono nuove fragilità, che possono portare fino alla perdita dell’autonomia. Così si invecchia non necessariamente in buona salute e da soli. Ma la solitudine colpisce anche altre fasce della popolazione. Sempre più i giovani scontano una serie di fragilità, trovandosi senza legami che facilitano la loro capacità di affrontare le vulnerabilità. E questo si amplifica quando si hanno difficoltà economiche o disabilità». Non tutte le risposte possono arrivare dai professionisti della salute. Ma tante esperienze nel Paese dimostrano che per contrastare questa povertà dobbiamo semplicemente costruire più relazioni. Attingere a quella che è definita la «prescrizione sociale» di cui si parla sempre di più, ovvero il collegamento delle persone con attività sociali che generano benessere. E poi rafforzare le comunità, creando spazi di condivisione. Per i giovani è raccomandabile fare volontariato e sperimentare la responsabilità nei confronti degli altri. Questo impegno può consolidare la cultura della cura di cui tutti avremo, prima o poi, bisogno.