Corriere della Sera, 31 ottobre 2025
Tra i mobilieri italiani alla fiera del design di Mosca: «Dobbiamo arrangiarci»
La dolce vita russa del design italiano è diventata una vita agra. «Stiamo tutti attaccati con le unghie a questo mercato sempre più ridotto, per sopravvivere».
Le apparenze ingannano, al Nuovo Maneggio, elegante spazio espositivo nel cuore della capitale. Dentro, luci, scrivanie e divani e armadi stupendi, vetri di Murano e cristalli, tutti esemplari unici concepiti e costruiti dalla scuola nostrana di quelli che una volta chiamavamo artigiani e mobilieri. Oltre trenta stand, presente la Brianza in forze, ma anche la Toscana e il Veneto, visitati da clienti dei quali si evince un discreto livello di benessere, per usare un eufemismo. Fuori, il volto preoccupato del titolare di un’azienda di Mariano Comense, specializzata in mobili per casa e ufficio. «Ma questi ultimi sono stati inseriti proprio nel più recente pacchetto di sanzioni. Quindi, non possiamo venderli. Le sedie da lavoro invece sì. Come diceva quel tale, non capisco ma mi adeguo».
Giunta alla sua quinta edizione, la rassegna «La dolce vita del design» porta un nome felliniano e un fasto che contrasta con il comune desiderio di passare inosservati, ne sia prova la scarsa propensione a rilasciare le proprie generalità. «Tutti vorrebbero vendere e non farsi vedere», è la sintesi di Silverio Marian, fondatore del consorzio W.W.T.S che raggruppa oltre una sessantina di aziende italiane del settore, comprese quelle che di recente hanno rifatto gli interni del Teatro Bolshoi e arredato alcuni saloni del Cremlino. «Ma chi è specializzato in prodotti di lusso, dove vuoi che vada? O Emirati Arabi, o Russia». Ex dirigente Snaidero, ex commercialista che nel 1995 mollò tutto per aprire la sua attività a Mosca. «Entrai ai Grandi magazzini sulla piazza Rossa: c’era odore di verze cotte. Poi, fino al 2022, i grandi marchi francesi e italiani. Perché loro ci amano, mentre noi ci ostiniamo a non capirli».
Canali secondari
L’export verso Turchia e Kazakistan è salito alle stelle: ma le merci finiscono in Russia
La geopolitica resta fuori dall’edificio in mattoni rossi dietro la Duma di Stato, è davvero il convitato di pietra. Anche se Marian non le manda a dire. «Ai piccoli imprenditori italiani che con la Russia ci campano non viene risparmiata alcuna difficoltà. I camion europei non possono entrare, e così i camion russi in Europa. A ogni frontiera si perde qualche pezzo. Gli specchi no perché secondo i codici doganali sono considerati oggetti bellici, adesso neppure più i water. Noi ci dobbiamo arrangiare, e guai se magari qualcuno dichiara nella bolla qualcosa che non corrisponde all’oggetto reale. Ma nessuno dice nulla quando ministri e alte cariche dello Stato vanno in Turchia o in Kazakistan e si congratulano per l’aumento vertiginoso dell’export di prodotti industriali dall’Italia, fingendo di non sapere qual è la ragione di quel boom, e dove vanno a finire quelle merci». Triangolazione è la parola proibita, non solo qui. Marian sembra una persona animata da buone intenzioni, che ben conosce come funziona da queste parti. «Avevo clienti che portavano qui venti autotreni all’anno di mobili: cucine e divani, di fascia media e medio-alta, le più importanti. Adesso, le fanno qui. Li abbiamo obbligati a lavorare e ora ci prendono gusto. Il mercato perso in questi anni, non lo riprenderemo più».
Girando per gli stand, emerge un pezzo di Italia in sofferenza, che dimostra però una notevole capacità di adattamento. E cerca comunque di andare avanti, sentendosi preso in mezzo dalla Storia con la maiuscola. «Secondo lei, chi potrà mai essere il cliente ideale per i nostri prodotti?». La voce che pone la domanda è collegata a un sorriso ironico e a una azienda fiorentina di lampadari artistici in ottone rivestiti di cristallo di Boemia, perfetti per il gusto dei russi ricchi. Hanno perso il settanta per cento delle commesse che arrivavano da questo Paese, dice. Quasi la metà del fatturato totale. La sua spedizione per questo evento è rimasta a lungo bloccata alla frontiera europea. Il paranco che gli serviva per issare i lampadari è stato considerato come una potenziale arma di guerra. «Tutto costa il triplo, inviare, montare, arrivare qui. A volte si perdono anche i pagamenti, perché i blocchi bancari hanno reso complicatissime le transazioni di denaro. Ma cosa possiamo farci?». Mentre ci avviamo all’uscita, salutiamo il mobiliere di Mariano Comense. Adesso siede a una delle sue belle scrivanie. Le ha fatte arrivare, ma non può più venderle. Allarga le braccia. «Resistiamo, cos’altro possiamo fare. E speriamo che la guerra finisca presto. Come fanno tutti».