Robinson, 30 ottobre 2025
Intervista a Marcelle Padovani
Ci dà appuntamento nella sede della stampa estera. E dove se no, mi verrebbe da dire. Marcelle Padovani è stata una delle più prestigiose corrispondenti estere ad aver lavorato nel nostro Paese, in particolare per il settimanale Le Nouvel Observateur. Se ne è innamorata al punto di viverci da cinquant’anni. Laureata in filosofia e in scienze politiche ha scelto il giornalismo come modo per leggere la realtà. Nata in Corsica, dove ha vissuto fino all’età di 16 anni, oggi abita a Roma, nel quartiere di Trastevere. Un paio di suoi libri sono stati un successo tanto in Francia quanto in Italia: si tratta di due intense conversazioni rispettivamente con Leonardo Sciascia e Giovanni Falcone. 
Cosa vuol dire essere cresciuti in Corsica? 
«Significa aver vissuto in una specie di cultura del sospetto. Una dimensione in parte analoga l’ho ritrovata in Sicilia. Il carattere del corso è segnato dalla diffidenza: verso gli altri e verso il mare: le case gli girano le spalle. L’isola fu venduta alla Francia nel 1768 e l’anno dopo nasceva Napoleone. Chissà come si sarebbe sviluppata la storia dell’Europa senza quella coincidenza». 
Forse uno scenario diverso? 
«È probabile, il padre aveva studiato a Pisa e forse lo stesso Napoleone invece di frequentare le scuole francesi sarebbe andato in quelle italiane. La Storia però non si fa con i se. Certo, per molto tempo Napoleone si sentì a disagio con i francesi, cercò in tutti i modi di ripulire la propria dizione. Era lo “straniero” e tale si considerò per il resto della vita. E lo capisco». 
Perché? 
«A 16 anni con i miei ci trasferimmo a Parigi. Loro erano professori, piccola borghesia che cercava in tutti i modi di offrire un futuro alla propria figlia. E quando giungemmo a Parigi, nel 1964, la prima cosa che avvertii non fu il senso di liberazione ma di claustrofobia. Mi sentivo braccata dai pensieri altrui, compatita dai sorrisetti dei coetanei, guardata come un corpo estraneo. Una forma di razzismo che però invece di deprimermi mi ha costretto a reagire». 
E questa reazione dove ti ha condotto? 
«A una laurea in filosofia e in seconda battuta una laurea in scienze politiche. Diciamo che le mie passioni sono state Rousseau e Spinoza». 
Perché loro? 
«Per la libertà. Secondo Spinoza non si può rinunciare al proprio libero pensiero. Per Rousseau la libertà era un diritto naturale che la società ha cancellato. Ora, non per fare la reduce, ma il Maggio del 1968 è stato per me questo: il diritto al libero pensiero. Mi sono laureata alla Sorbona, ma ricordo le libere lezioni a Vincennes. Sembrava l’Atene di Platone soffocata dal fumo delle Gauloises». 
Potevi fare la carriera universitaria ma hai scelto il giornalismo. Perché? 
«Era una delle opzioni possibili. Ero indecisa tra insegnare filosofia, fare la speleologa o la spogliarellista».
Come ti era venuta l’idea dello striptease?
«Lo immaginavo come un gioco, oltretutto abitavo dalle parti del Moulin Rouge e ogni tanto incrociavo le ragazze che lo praticavano. Erano intelligenti, spigliate, curiose della vita. E a vent’anni la vita la ami in tutte le sue sfumature. Alla fine però mi presentai con una bell faccia tosta alla redazione dell’Express. Conobbi la direttrice, Françoise Giroud. Fu molto sbrigativa. Disse che cercavano una persona che distribuisse i dispacci di agenzia. Accettai. Fu la classica gavetta».
Quanto restasti all’Express?
«Un paio d’anni. Era un bel settimanale, di un conservatorismo illuminato, con collaboratori prestigiosi: Aron, Malraux, Mauriac. Ma preferii passare alla concorrenza, al Nouvel Observateur e occuparmi di politica».
In quel ruolo diventasti la prediletta di Mitterrand.
«Nel 1972 era stato eletto segretario del partito socialista. Scrissi un articolo su quell’evento che fu titolato: Main basse sur la ville. La titolazione richiamava il film di Rosi appena uscito in Francia, Le mani sulla città. L’allusione, in qualche modo camorristica, non piacque al neo segretario e se ne lamentò scrivendomi una lettera. Gli risposi dicendogli che non c’era nessun intento denigratorio e lui volle conoscermi. Fu così che diventammo amici».
Solo amici?
«Soltanto questo. Si invaghiva ogni tanto delle belle ragazze. E una sola volta, all’inizio, mentrenel suo studio ero davanti a un mappamondo, provò ad appoggiarmi le mani sulle spalle. Mi voltai e gli feci capire che non doveva permettersi. Per il resto gli ho voluto bene e l’ho ammirato. Quando ormai era alla fine, a causa di un cancro, fui tra le poche persone che volle vedere per l’ultima volta. Morì tre settimane dopo, nel gennaio del 1996. Io già da tempo lavoravo come corrispondente dall’Italia».
Quando arrivasti a Roma?
«Iniziai come pendolare tra Parigi e l’Italia dal 1972. Trovai una casa a Trastevere, quartiere che non ho mai abbandonato. Il mio interesse per il vostro Paese dipese dalle mie origini corse ma anche dal ruolo e dallo sviluppo che stava avendo il comunismo italiano. Il mio primo libro fu sul Pci, su cosa rappresentava in quel momento la svolta di Enrico Berlinguer. In Francia c’erano molta curiosità e molte aspettative per un partito che, diversamente da quello francese, aveva rotto con l’ortodossia sovietica».
Sposasti Bruno Trentin, una delle grandi figure del sindacalismo italiano.
«Ci conoscemmo durante le elezioni politiche del 1972. Seguì una cena durante la quale mi incuriosii di quest’uomo bello, colto e discreto. Bruno era nato in Francia dove il padre antifascista, Silvio, si era rifugiato. Mi innamorai di lui e fu un sentimento reciproco. Bruno era separato e nel 1974 ci sposammo. Devo anche alle nostre discussioni il libro sul Pci che in Francia uscì nel 1977».
A proposito di libri come nacque quello su Sciascia?
«Fu il mio editore francese Calmann–Lèvy a volerlo. Sciascia, insieme a Calvino, era lo scrittore italiano più noto. La Sicilia come metafora, questo titolo del libro, comparve alla fine degli anni Settanta».
Metafora di cosa?
«Metafora di un mondo asserragliato nei pensieri e disincantato nelle azioni. Sciascia mi raccontò che i nobili siciliani e le famiglie agiate scavavano nella roccia, in prossimità delle fondamenta, per realizzare la “stanza dello scirocco”, uno spazio senza finestre dove rifugiarsi per proteggersi dalla sabbia, dal vento e dall’afa. Una metafora appunto del carattere di quel popolo».
E Sciascia cosa pensava di quel carattere?
«Percepiva che le cose difficilmente sarebbero cambiate. Ma la sua propensione illuministica, considerava Diderot il suo maestro, gli lasciava qualche speranza».
Per lavorare sul libro dove vi vedevate?
«Quasi sempre a Palermo, nella casa editrice Sellerio. Lui aveva uno spazio suo in redazione, lo trovavo già lì seduto in poltrona. Mi accompagnava Elvira Sellerio che a volte si fermava ad assistere».
Sei mai stata a Racalmuto, il suo paese?
«Mi invitò in un paio di occasioni. Maria, la moglie, una donna taciturna e gentile, preparò il pranzo. Ricordo che a tavola mangiammo alcuni piatti siciliani. Buonissimi, e volli complimentarmi. Lei mosse solo un braccio come per arginare le mie lodi. E restò zitta. Calò una specie di silenzio imbarazzato che Sciascia ruppe chiedendo alla moglie: “A che pensi Mariuzza?"».
Tu invece cosa pensavi di lui?
«Mi colpì di quell’uomo schivo e malinconico il fatto che nelle tante volte che ci eravamo visti non mi avesse mai chiesto niente di me. Era come se la mia vita ai suoi occhi non esistesse. O non gli interessasse» 
Una forma di discrezione?
«Forse sì, non credo che si sentisse in imbarazzo, infatti parlava molto di sé. Penso fosse lusingato dal fatto che il libro sarebbe uscito prima in Francia. Amava molto Parigi, una città dove si trovava bene: libertaria e afrodisiaca, mi disse con quella sua capacità sintetica di chiudere in due parole la definizione di un mondo»
L’altro siciliano con cui hai lavorato per un libro è stato Giovanni Falcone. Come lo hai conosciuto?
«La prima volta che lo vidi fu dopo il maxi processo della metà degli anni Ottanta, nel quale testimoniava il pentito Tommaso Buscetta. Falcone aveva capito che quell’uomo avrebbe potuto portargli frutti insperati nella lotta alla mafia. Chiesi a Luciano Violante se poteva organizzarmi un incontro. Andai a trovarlo a Palermo nel suo ufficio».
Che impressione avesti?
«L’inizio fu sconcertante. Intanto all’ufficio si accedeva salendo una lunga rampa di scale. Si arrivava davanti a una porta blindata con tanto di telecamera e poi a una seconda porta che dava su uno spazio vuoto e buio. Nel momento in cui mi accolse esordì dicendo: “Sono desolato, ma devo correre all’Ucciardone per incontrare un detenuto”. Chiesi: “Chi?”. Mi rispose: “Non è igienico saperlo”. Mi lesse sul volto tutta la mia delusione».
A quel punto?
«Propose di vederci la mattina dopo all’aeroporto. Avremmo chiacchierato sull’aereo che ci avrebbe portati a Roma. Ma anche in quella occasione non riuscimmo, c’era sull’aereo Marco Pannella che continuava a parlargli. Ancora una volta dovemmo rinviare».
Tu cosa avevi in mente?
«La mia idea era di realizzare un libro sulla sua lotta alla mafia. Dovevamo capire se c’erano le condizioni per farlo. Finalmente riuscimmo a vederci a Roma in una caserma in periferia. Fu il primo vero incontro, cui ne seguirono molti altri. Una cosa che mi sorprese fu che ad uno di questi appuntamenti volle assistere la moglie. Non riuscivo a spiegarmi la ragione e alla fine Falcone ridendo si giustificò dicendomi: “Francesca è un po’ gelosa”. Quando finalmente finii il libro, lo chiamai dicendogli: “Sono pronta a portartelo per le correzioni”. Lui disse: “No, vengo io”. Con Bruno eravamo in vacanza a San Candido».
E vi vedeste in montagna?
«Sì, la sera lo invitammo a cena in un ristorante di Dobbiaco. Ci sedemmo e Bruno cominciò a parlare di Gustav Mahler. Più si addentrava nella storia del compositore viennese e più Giovanni sprofondava nella sedia. Alla fine sembrava finito sotto il tavolo. A quel punto mi inserii parlando del figlio di Stefano Bontate e vidi Falcone risorgere. Per tutto il resto della sera non facemmo che discutere di mafia. Era la sua ossessione».
Non aveva altri interessi?
«Immagino di sì, ma compresi che nella lotta che aveva intrapreso non c’era posto per altro. Un giorno vidi sul suo tavolo di lavoro degli assegni che aveva fatto sequestrare. Era convinto, e non a torto, che la mafia si sconfigge soprattutto sui soldi».
L’ultima volta che lo hai visto?
«Fu un po’ prima del Natale del 1991. Poi ci sentimmo alcune volte per telefono. L’ultima, in occasione di un viaggio in Spagna dove avremmo dovuto presentare il libro. Tre giorni dopo ci fu l’attentato».
Sapeva dei rischi che correva?
«Ne era pienamente consapevole. Lo aveva messo nel conto e me lo disse in più di un’occasione».
Cosa pensi degli artisti e degli intellettuali italiani?
«Sono meno egocentrici dei francesi. Più aperti e disponibili. Insomma, noi abbiamo la tradizione dei caffè, voi le trattorie. Il cibo è un buon modo per comunicare. Ne ho conosciuti diversi».
Chi ti è piaciuto?
«Umberto Eco. Per me un mito. “Mi chiese come va?” “Sono preoccupata” risposi “perché è la prima volta che la incontro”. E lui si mise a ridere. E poi Fellini, seduttivo e bugiardo. Ero nel suo studio in Corso d’Italia. Prese una telefonata e lo sentii letteralmente cambiare voce: “No, il maestro non c’è. No, non chiami domani. Il maestro è partito per il Polo Nord dove pensa di realizzare il prossimo film».