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 2025  ottobre 30 Giovedì calendario

La Cina e l’Europa spiazzata

Da secoli i leader americani sono per lo più avvocati convertiti alla politica e anche gli europei vengono quasi tutti da studi di diritto, economia e altre scienze sociali. I cinesi, no. I curriculum dei membri del comitato permanente del partito mostrano che gli uomini selezionati per i vertici della Repubblica popolare sono ingegneri, in gran parte. Xi Jinping stesso, un politico puro, ha fatto studi di ingegneria chimica. L’osservazione è dell’analista Dan Wang dell’Università di Stanford e forse mai questa differenza ha contato tanto nelle relazioni internazionali come in questi giorni. Oggi a Busan, in Corea del Sud, Xi ha incontrato Donald Trump quando in Europa era ancora notte. Dormivamo, ma parlavano di noi forse senza neanche bisogno di nominarci. È quasi scontato che i negoziatori e i leader di Cina e Stati Uniti escano dai colloqui di questi giorni annunciando rapporti meno tesi. Più che una pace, sarà una tregua commerciale. La Casa Bianca allenterà i vincoli alla vendita di alcuni semiconduttori e si tiene pronta a rinviare, o correggere, alcuni dazi contro la Repubblica popolare; Pechino per qualche tempo frenerà le sue ritorsioni e acquisterà più soia dal Mid-West degli Stati Uniti. Ma la posta in gioco per noi europei rimane altissima. I dettagli di ciò che i cinesi in particolare stanno facendo segnalano che hanno colto l’occasione delle tensioni con Trump per lanciare una precisa messa in guardia anche nei nostri confronti.
Giusto la retorica è meno incendiaria, la teatralità assente; ma la sostanza dell’approccio di Xi verso l’Europa ricorda quella di Trump: politica di potenza e coercizione economica, semplicemente perché Xi può.
Tutto nasce nella sequenza di eventi partita il 29 settembre, quando gli Stati Uniti hanno introdotto una nuova stretta alla fornitura di semiconduttori alle imprese della Repubblica popolare. La risposta di Xi Jinping è arrivata l’8 ottobre, con la «Notice» («avviso») 61 del ministero del Commercio. Sono atti legislativi ed è in questi passaggi che si vede quanto conti avere degli ingegneri al vertice dello Stato.
La «Notice 61» stabilisce che il governo di Pechino debba necessariamente concedere una licenza alla riesportazione di qualunque prodotto che contenga almeno lo 0,1%, in valore, di sette elementi pesanti di terre rare di origine cinese: samario, gadolinio, terbio, disprosio, lutezio, scandio e ittrio, incluse le leghe, gli ossidi e i magneti. I nomi suonano curiosi, ma sono componenti essenziali delle auto elettriche, delle turbine eoliche, di sensori, motori e sistemi a voce dell’elettronica di consumo o della domotica, ma soprattutto dei semiconduttori per l’intelligenza artificiale e di un gran numero di sistemi di difesa. Per questi ultimi, la possibilità della Cina di concedere licenze è negata in partenza; per i chip è severamente ristretta.
Poiché Pechino controlla a livello mondiale il 70% dell’estrazione di terre rare (anche in Myanmar), l’87% della loro raffinazione e il 90% della produzione di magneti che le contengono, le conseguenze sono evidenti. Xi Jinping rivendica un diritto di veto sulla produzione in tutto il mondo delle tecnologie industriali più strategiche del nostro tempo. Poteva reagire alla provocazione di Trump sui chip con una ritorsione diretta unicamente agli Stati Uniti, ma non lo ha fatto. La «Notice 61» coinvolge in pieno l’Unione europea, il Giappone, la Corea del Sud e potenzialmente l’Ucraina, che nei magneti dei suoi droni usa un altro elemento di terre rare (il neodimio) sul cui uso la Cina ora pretende di avere l’ultima parola.
È probabile che Xi esca dal colloquio con Trump annunciando un rinvio dell’applicazione di questi vincoli, ma il leader cinese non farà cancellare la «Notice 61». La pistola resta sul tavolo, carica. È l’inevitabile conseguenza del rifiuto culturale di noi europei di aprire gli occhi sul fatto che questi meccanismi di coercizione, nel resto del mondo, si preparavano da tempo. La prima volta che la Cina ha fatto ricorso al ricatto delle terre rare fu quindici anni fa contro il Giappone, per una disputa sui confini marittimi. Allora i prezzi di alcuni di questi materiali esplosero del 77%, ma noi europei a stento ce ne siamo accorti. Come nel caso del gas russo, non abbiamo mai fatto nulla per spezzare o anche solo capire le nostre dipendenze prima che fosse tardi; pensavamo alla crisi greca o alle regole del Patto di stabilità a quel tempo. Ora, nel migliore dei casi, sulle terre rare servirà un altro decennio per ricavarci uno spicchio di autonomia.
La stessa lezione arriva dalla vicenda di Nexperia, azienda olandese di microchip. A fine settembre il governo dell’Aia l’ha commissariata senz’altro su pressione degli Stati Uniti, perché alla fine dello scorso decennio aveva preso il controllo di Nexperia un’azienda cinese (Wingtech) entrata di recente nella lista nera dell’amministrazione americana. La risposta di Pechino al commissariamento non si è fatta attendere: blocco immediato delle forniture alle aziende europee dei chip Nexperia, disegnati in Olanda ma manufatti nella Repubblica popolare. Decine di imprese in Germania ma anche in Italia ora sono in difficoltà e devono rallentare le produzioni.
Xi Jinping agisce con l’Europa secondo una logica, coerente, di politica di potenza. I forti esigono tutto ciò che possono – scrive Tucidide —, i deboli subiscono ciò che devono. Resta giusto da capire perché lo fa e purtroppo non è difficile. Da quando Trump ha alzato i suoi dazi, l’export cinese verso gli Stati Uniti è crollato del 17% rispetto a un anno fa. La Repubblica popolare ora cerca di recuperare scaricando sottocosto parte di quel surplus industriale sull’Unione europea (più 8,2% di export in un anno) e Bruxelles ha iniziato a reagire con dazi antidumping contro Pechino, prima sulle auto e poi sull’acciaio.
Il messaggio di Xi è preciso: ci sta avvertendo che, se facciamo resistenza, può forzarci ad aprire il nostro mercato. Viviamo un tempo di ferro, ma quanti leader in Europa stanno facendo uno sforzo per capirlo e adattarsi?