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 2025  ottobre 30 Giovedì calendario

«Papà Ugo mi torchiava a 4 anni per prepararmi alla clandestinità. A scopone era un maestro, Pertini no. Si infuriò quando criticai Bankitalia»

«Il primo ricordo di mio padre è un interrogatorio. “Come ti chiami?”. Rispondo: “Giorgio La Malfa”. “No, ti chiami Giorgio Cornali”. “Da dove vieni?” “Bergamo”. “No, vieni da Napoli”. Ho 4 anni e non capisco. Per alcune sere si ripete questa pantomima, fino a quando comincio a dare le risposte giuste».
Ugo La Malfa, tra i fondatori del Partito d’Azione, dopo aver trasferito la famiglia da Milano a Bergamo, nel 1943 fugge in Svizzera prima che la polizia vada ad arrestarlo. Caduto il fascismo, il 25 luglio 1943, torna a Roma sotto falso nome, Ugo Cornali, residente a Napoli in via Tasso, per rappresentare il PdA nel Comitato dei partiti antifascisti che diventerà il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). E si fa raggiungere dalla moglie, dalla figlia maggiore, Luisa, e dal piccolo Giorgio.
Giorgio La Malfa come ricorda quegli anni?
«Papà partì da Bergamo di corsa. Ma succedeva spesso che dovesse andarsene all’improvviso. Mia sorella, più grande, si rendeva conto. Io no. Poi lo abbiamo raggiunto a Roma. L’8 settembre entrò in clandestinità. Andammo a vivere in una casa di fronte all’Isola Tiberina, messa a disposizione dal diplomatico Filippo Caracciolo, insieme al grande giurista Edoardo Volterra e a Riccardo Bauer, capo della resistenza armata romana. Si ritrovavano in una stanza per ascoltare Radio Londra: “Qui parla il colonnello Stevens…”. I ricordi successivi sono a guerra finita».
Cominciava allora la vita politica di suo padre. In casa come la vivevate?
«Mio padre era un siciliano silenzioso e severo. Veniva da una famiglia povera di Palermo: suo padre era appuntato di pubblica sicurezza. Era piuttosto dotato e un parente lo aiutò ad iscriversi a Ca’ Foscari, a Venezia, dove si laureò in Scienze politiche nel 1926. Aveva come insegnanti Silvio Trentin e Gino Luzzatto, che gli ispirarono il suo antifascismo. Trentin lo mise in contatto con Giovanni Amendola, che segnò il suo futuro».
Stava spesso in famiglia?
«Lavorava in casa la mattina, scriveva. Gli avevano regalato una penna stilografica con la cartuccia ma lui mentre scriveva continuava a intingere il pennino in un inesistente calamaio. Si mangiava insieme, poi andava alla Camera e tornava tardi. Verso la fine degli anni Quaranta, mia madre ci portava in Parlamento per seguire certi dibattiti. Mi impressionava quando i deputati facevano a botte. Ho assistito al tafferuglio più cruento, durante il dibattito sulla Nato. Allora scattava una sirena e ci facevano sgombrare. Quando entrai in Parlamento chiesi di cosa si trattasse. Mi spiegarono che il presidente ha un tasto sotto il banco per dare l’ordine di sgombrare le tribune quando i deputati esagerano. Ora la sirena non viene più usata, non perché non ci siano tafferugli, ma forse perché si è perso il senso del decoro delle istituzioni».
Suo padre «portava a casa» la politica?
«Ricordo con gioia quando lo accompagnavo nelle campagne elettorali, come quella del 1953 in Umbria. Avevo 14 anni. Mi piacevano i suoi discorsi. Ma quel che mi entusiasmava era poter uscire dal rigore familiare di mia madre, bere vino e giocare a scopone, di cui mio padre era maestro».
Come Pertini?
«Senza volere offendere la storia della Repubblica, Pertini come giocatore di scopone scientifico non era granché. Sono stato suo compagno di gioco, purtroppo era un pessimo giocatore».

Lei è un giocatore all’altezza di suo padre?
«Ho imparato da lui. E c’è un episodio che solo qualche anno dopo ho capito che incrociava la storia repubblicana. Nel 1964, studiavo a Cambridge, tornai a Roma per le vacanze di Pasqua. Con mia sorpresa, perché i miei non avevano una vita sociale, mia madre mi disse che avevamo invitato alcuni ospiti in una trattoria ai Castelli. Altra cosa curiosa, l’ospite principale era un generale, e in casa mia non s’era mai vista una divisa. Pranziamo, noto che mio padre tratta il generale con riguardo. Finito il pranzo chiede al generale se gioca a scopone. Lui risponde che se la cava. Intuisco che sta per nascere un problema».
Perché?
«A scopone mio padre, se il compagno giocava male, non si tratteneva. Lui in coppia con il generale, io con un compagno scarso: capivo di dover perdere. Però il generale giocava davvero male. Mio padre stava zitto e digrignava i denti. Perdono anche la rivincita, e allora sbotta: “Come le è venuto in mente di giocare quel sette… e la mano prima quel sei… Generale, come fa a vincere le guerre se non capisce niente di strategia!”. Anni dopo ho capito che se ci fosse stato il famoso “tintinnar di sciabole” di cui si seppe quando venne alla luce il famigerato “Piano Solo” che prevedeva un golpe, noi saremmo stati i primi ad essere arrestati».

Chi era quel generale?
«Giuseppe Aloia, l’avversario del generale De Lorenzo, colui che sarebbe dovuto entrare in scena a nostra difesa qualora fosse scattato il colpo di Stato
. Per quel motivo mio padre l’aveva invitato».
Torniamo al Partito d’Azione, finito in nulla...
«Mio padre non ne parlava mai, ma intuivo che quella era la tragedia della sua vita. Ricordo una conversazione tra mio padre, Adolfo Tino, con cui era fuggito in Svizzera, e Leo Valiani. Tino, che non intraprese la carriera politica, disse amaramente: “Non vi illudete, dopo la guerra gli intellettuali perderanno d’influenza e le masse torneranno nella loro pigrizia. Non riuscirete a cambiare nulla perché il fascismo è dentro l’anima degli italiani”. Mio padre si sentiva l’erede di Amendola, bastonato nel 1925 e morto in Francia nel ’26. Giorgio Amendola, il figlio, amico di mio padre, nel 1928 gli rivelò di essersi iscritto al partito comunista. “Non lo puoi fare. Ti chiami Amendola!”. Litigarono. Anche i figli di Trentin e di Berlinguer, parlamentari di Amendola, diventarono comunisti perché non avevano più fiducia che la democrazia potesse da sola combattere il fascismo. Mio padre rimase l’unico di quella pattuglia convinto di poter battere il fascismo con le forze della democrazia. Un paio di mesi dopo la mia elezione in Parlamento, ci fu un dibattito in cui intervenne mio padre. Più tardi, alla buvette, Amendola, mi si avvicinò: “Giorgio, non ci far caso, quando tuo padre polemizza con i comunisti, non ce l’ha col Pci, ce l’ha con me”».
Mai avuto contrasti?
«Uno sicuramente sì. Negli Stati Uniti, al MIT, conosco Franco Modigliani. Un giorno mi vede in biblioteca mentre sto leggendo la relazione del governatore della Banca d’Italia, Guido Carli. Doveva essere il 1965. Mi chiede di che si tratta e cominciamo a parlarne. Dopo qualche settimana, mi propone di scrivere insieme un saggio sulla politica economica italiana. La mia carriera accademica comincia con quel saggio. Modigliani non era ancora un premio Nobel ma era uno dei più ascoltati economisti del mondo. Torno in Italia e porto una copia del saggio a mio padre. Lui lo sfoglia e va su tutte le furie: “Cosa cavolo scrivete tu e questo Modigliani? Prima di prendere in mano la penna bisogna sapere due cose. Uno: la Banca d’Italia non si attacca mai perché lì ci sono solo persone per bene. Due: cosa c’entra la Banca d’Italia? Cerca solo di compensare le conseguenze dell’azione di governo del centrosinistra. Quindi, se volete polemizzare, fatelo con me, che in quel periodo ero ministro del Bilancio, non con i tecnici”».
Altri momenti di tensione, ad esempio sulla «fermezza» durante il caso Moro?
«No, sulle Brigate rosse credo avesse ragione. Venne frainteso quando disse che andava ripristinata la pena di morte. Forzava la mano per far capire che quella era una guerra e occorreva combatterla. Dopodiché vollero dargli una scorta ma lui la rifiutò: “Se vogliono spararmi è meglio che ammazzino solo me e non i ragazzi della scorta”».
Spesso i figli dei grandi uomini, per reazione, cercano di toglierli dal piedistallo. Lei invece ha imboccato la stessa strada. Come se lo spiega?
«Qualcuno, per un pregiudizio, ha pensato che il Partito Repubblicano fosse diventato un feudo familiare. Mio padre era felice che facessi il professore perché lui non l’aveva potuto fare. Però, con il tempo, ho capito che non gli dispiaceva che avessi raccolto la sua eredità. La risposta che io mi sono dato è che non ho avuto un rifiuto dell’attività di mio padre perché lui non era un uomo di potere, era un uomo di battaglia, di una minoranza guidata da alti ideali, ma così piccola da essere quasi sull’orlo dell’estinzione».