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 2025  ottobre 29 Mercoledì calendario

Marracash: “Io sono l’eccezione, non la regola”

Gli pare che il ricordo sia “un pensiero languido che confina con il rimpianto”, ma avendone troppi, non gliene viene in mente neanche uno. C’è stata un’epoca in cui Marracash spendeva le ore a maledire la propria condizione e ce n’è stata un’altra in cui l’ha trasformata in versi. Gli anni, quando servono a qualcosa, si contano più volentieri: “Ne ho 46 e quello che mi è accaduto è incredibile. Da ragazzino, nella mia camera, ascoltavo musica tutto il giorno. I miei pensavano giocassi o perdessi tempo. Nessuno immaginava non solo che avrei suonato davanti a decine di migliaia di persone, ma neanche che potessi avere un qualche genere di futuro nel mio mondo”.
130 dischi di platino, 32 d’oro. Il pubblico, la critica, gli stadi, il premio Tenco. Avevano torto.
“Avevano ragione. Nel 99% dei casi la diffidenza nei miei confronti avrebbe avuto ragioni valide. Sono stato l’eccezione, non la regola”.
Che sono per lei le regole?
“Un insieme di codici che ho visto cambiare in fretta e ai quali mi sono sempre adattato con fatica”.
La sua è anche una storia di esodi.
“Sono nato in Sicilia e l’ho lasciata subito, esattamente come ho abbandonato a sette anni la casa di ringhiera a Milano, dove il cesso stava sul ballatoio, per vivere sei mesi in albergo in attesa che dopo lo sfratto ci assegnassero una casa in periferia, alla Barona, in un quartiere enorme che era una città. Fu uno choc, un passaggio traumatico, per me e per la mia famiglia. A scuola, una scuola tosta, i compagni di classe sembravano avere almeno cinque anni più di me. Era cambiato tutto, a partire dal paesaggio urbano, pareva di essere ogni giorno in un film di Scorsese”.
Che peso hanno avuto nell’invenzione le cose che mi sta raccontando?
“Un peso rilevante. Le mie origini hanno rappresentato il motore della creatività, il pozzo a cui attingo tutte le volte che ho sete. Provare disagio, fare di necessità virtù, avvertire una sorta di orgoglio per il luogo da cui provieni sono sensazioni che possono darti una grande forza”.
Per creare, cos’altro è stato importante?
“Leggere. Era economico, ti faceva viaggiare lontano con la fantasia e ti restituiva ore e ore di intrattenimento a buon mercato”.
Come è cambiato in quarant’anni il luogo in cui è cresciuto?
“Ha smarrito quel senso di appartenenza di cui le parlavo. La bandiera del tuo quartiere era un fatto identitario, che ti influenzava e ti rimaneva addosso. Noi non ci sentivano figli di un dio minore, ma ragazzini più acuti, più svegli e più capaci dei nostri coetanei che vivevano in centro. Li consideravamo, magari a torto, sciocchi, stupidi, inadeguati. Babbi, come diciamo a Milano. Avevamo codici diversi in periferia, persino nel taglio di capelli o nell’abbigliamento, una distinzione che oggi non esiste più. Si è fatta strada l’omologazione, si è smarrito l’orgoglio della diversità”.
 
Integrarsi è difficile?
“È complicato perché l’integrazione è diventata una materia di scontro politico e perché in provincia, dove sono meno abituati alla diversità, il martellamento della propaganda che mette all’indice l’uomo nero è ossessivo. Alla Barona, nel mio condominio convivevano tranquillamente egiziani, disoccupati e transessuali. Non ho mai percepito razzismo o intolleranza. Nella vita reale, fuori dal circo mediatico, le cose sono più semplici. Poi c’è un altro aspetto, forse anche più importante”.
Quale?
“Che le differenze, quelle marcate, quelle che dividono o al contrario fanno abbracciare, sono orientate dalla condizione economica. I soldi inclinano le opinioni molto più del sesso, della religione o del colore della pelle. Ingentilita con il denaro, la minoranza, il diverso, lo straniero smette di fare paura. Un africano ricchissimo non è più un pericolo, ma un benemerito che la comunità è pronto ad accogliere”.
È una questione di ipocrisia?
“È sempre una questione di ipocrisia: l’invenzione del secolo, la base sulla quale abbiamo costruito il presente, un presente in cui la distinzione tra ciò che è vero e ciò che artefatto si va completamente perdendo. Io la vedo in tutto, l’ipocrisia: a iniziare dalla democrazia che è diventata un rito stanco, un teatrino obsoleto, un’illusione di partecipazione dominata se non soffocata sotto traccia dal profitto che sembra essere l’unica virtù a cui tendere”.
Uno scrittore che lei ama, Bukowski, sostiene che quando si è stati poveri per molto tempo l’ultima cosa che si desideri è ritrovarsi ancora in bolletta.
“Quando non li hai, i soldi diventano un pensiero quasi ossessivo. Sono una spada che pende sul collo, un’ombra che ti accompagna, un peso che avverti. La vita dei miei genitori, una vita priva di viaggi, scoperte, svaghi e piaceri, non la volevo imitare. E per non farla ho messo in discussione tante cose. Non certo, o almeno non soltanto per il denaro”.
Per cos’altro?
“Per l’amore, ad esempio. Non erano una coppia felice e litigavano spesso. Stanno meglio adesso i miei, sono più belli oggi”.
L’urgenza produce nevrosi.
“Non credo che la felicità dipenda dal conto in banca. Le nevrosi sono ovunque, chi è cresciuto nell’abbondanza non è estraneo al problema e anzi a volte sta peggio di chi non ha niente”.
Lo dice retrospettivamente?
“Non c’è dubbio, parlo così perché dalle ristrettezze sono uscito. Qualcuno direbbe che ce l’ho fatta”.
Lei è pronto a dirlo?
“Sarei anche pronto a dirlo, ma poi non potrei pretendere di essere un artista”.
Chi è l’artista secondo lei?
“Uno che di fronte all’imposizione di una gabbia o di una logica senza via di fuga nella gabbia non entra e va dall’altra parte. Sei artista prima di diventarlo. Sei artista che qualcuno te lo riconosca o meno, che tu ce la faccia o meno”.
Se non arriva un riconoscimento avvilirsi è umano.
“Per molto tempo a me non è arrivato e ne ho sofferto. Non ero capito né dalla critica né dal pubblico. Mi vedevano, mi ascoltavano e non capivano chi cazzo fossi: un tamarro con gli orecchini, un poeta, un ragazzo sensibile o un rapper edonista”.
Oggi l’hanno capito.
“Il complesso, per non dire la subordinazione del rap nei confronti degli altri generi musicali, in Italia, è stato di lunghissima durata. Sono contento di aver contribuito ad abbattere il pregiudizio”.
Prima di inciderlo, un disco, ha faticato.
“C’è voluta perseveranza, voglia di non accettare i compromessi, dedizione, rinunce, sacrificio”.
E fortuna?
“Non credo molto alla fortuna, credo nel lavoro”.
Ne ha fatti molti?
“Moltissimi. Il magazziniere, il commesso, il muratore, il traslocatore, il telefonista in un call center”.
Ha un diploma da perito elettronico.
“Non so cambiare neanche una lampadina e prima di diplomarmi sono stato bocciato due volte, ma non sono cose che capitano per caso, sono cose che scegli”.
Cosa le sembra di aver davvero scelto in questi primi 46 anni?
“Di non tacere, di far sentire la mia voce, di non accettare le cose così come sono”.
Come si vive da non addomesticati?
“Ci si sente soli e un po’ alieni. Ma è una condizione nella quale mi sono sempre trovato fin da quando ero piccolo. Non mi riconoscevo in nessuna squadra, in nessun gruppo, in nessuna classificazione”.
È liberatorio?
“È faticoso”.
Cosa la ripaga di questa fatica?
“Che la mia musica sia arrivata alle persone, a un pubblico eterogeneo, a gente adulta e a ragazzi più giovani”.
L’applauso generalizzato non le fa paura? Rischia di essere già arrivato alla seconda fase della tripartizione arbasiniana.
“Potrei diventare il solito stronzo? Il rischio c’è. Ma è anche vero che essere applauditi è più consolante che essere ignorati”.
Ai giovani che si sentono ignorati cosa sente di dire?
“Che sono stato come loro. E che la sensazione di dover partire con l’handicap e non avere le stesse possibilità degli altri in questa immensa competizione che è la vita nel mondo occidentale, crea rabbia. Una rabbia che è stata anche mia”.
Una rabbia che capisce?
“Una rabbia che comprendo e giustifico, anche se adesso che sono adulto ho capito anche che quel tipo di rabbia è controproducente perché si risolve in sé stessa e non ti fa arrivare allo scopo. Quando ero ragazzino mi sentivo come il Raskol’nikov di Delitto e castigo: al di sopra degli altri, della morale comune, delle leggi. Rubavo e mentre lo facevo mi sentivo in diritto di farlo e mi autoassolvevo: ‘Il mondo se lo merita’, mi dicevo, ‘sono io che non mi merito di avere all’orizzonte una vita di merda’. Rubavo nei magazzini di orologi, alle feste, nei negozi in cui lavoravo senza battere lo scontrino. Di tutto, come le dicevo”.
E più in là dell’autoassoluzione, il senso di colpa non le faceva visita?
“Per un paio di anni, mai. “Se non badi alla tue cose e non le custodisci con attenzione sono cazzi tuoi”, mi ripetevo. Poi ho capito che in fondo finivo per colpire altri disgraziati come me. Il problema è la gestione della rabbia: le forze vanno canalizzate e indirizzate verso il meglio, con grinta, senza abbrutirsi e senza piangere sul passato. Ti illudi di farlo scontare agli altri il passato, ma alla fine a pagare il conto sei sempre tu. E ti rovini la vita”.
In Vittima, una canzone del suo ultimo disco, il grado di autoanalisi sfiora la spietatezza.
“Sui social trovi ministri in lacrime e gentaglia che, colta con le mani nella marmellata, si pente a uso e consumo del pubblico, con un compiacimento sinistro, tardivo e peloso. Assumersi le proprie responsabilità è l’unica strada per essere dignitosi perché la dignità non è uno slogan, ma un comportamento, un modo di essere con noi stessi e con gli altri”.
Sta per uscire un libro scritto con Claudio Cabona e intitolato Qualcosa in cui credere.
“Sono contento del risultato finale e contentissimo di chiudere una lunga indagine su me stesso che ho iniziato nel 2019 e che dopo tre dischi e questo libro considero conclusa. Ho voglia di qualcosa di nuovo, ho voglia di voltare pagina, di altre emozioni, immagini e suoni”.
Nella quarta di copertina si parla di ferite. Le sue sono guarite o sanguinano ancora?
“Ci sono le ferite di cui sei conscio e sulle quali puoi lavorare. Ed esistono quelle nascoste, che fanno male, ti porti dietro per un sacco di tempo e non guariscono. Le prime aiutano a ispirarti, le seconde sono gramigna. Prima o poi troverò il modo di estirparla”.